by Sergio Segio | 4 Gennaio 2013 9:11
Ascoltare un angloparlante che cita Foucault è spesso un’esperienza straniante. Magari il nostro interlocutore si sta soffermando su testi che ben conosciamo, e che tuttavia possiamo stentare a riconoscere nelle sue parole. Concetti che ci sono sempre apparsi problematici assumono la veste di asserzioni nette e perentorie. La tentazione immediata è quella di attribuire tale effetto alla potenza formatrice della lingua. Come noto, gli anglofoni dicono assertivamente «is» mentre in altre lingue, specie in quelle romanze come l’italiano, l’inerenza del predicato al soggetto tende a essere espressa attraverso forme verbali più circostanziate e vaghe. Quando poi entra in gioco il termine «power», per loro è tutto chiaro, mentre noi immediatamente ci chiediamo se si sta parlando di potere, potenza, autorità , influenza, pressione ecc. Detto ciò, per comprendere il motivo per cui una serie di autori francesi del tardo Novecento ci appaiono così diversi da come pensiamo di conoscerli quando a parlare di loro sono studiosi di provenienza statunitense, o comunque interni ai circuiti accademici a dominanza culturale nordamericana, è senza dubbio necessario non limitarsi a una risposta incentrata sul determinismo linguistico. E per farlo il volume di Franà§ois Cusset dal titolo French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze and Co. all’assalto dell’America (il Saggiatore, pp. 426, euro 28) si rivela una strumento prezioso.
Che cos’è la French Theory? «Una pratica americana», rispondeva Sylvère Lotringere, animatore di imprese editoriali quali Semiotext(e) e Autonomedia che hanno svolto un ruolo fondamentale nella ricezione statunitense di autori come Gilles Deleuze, Felix Guattari, Michel Foucault, Baudrillard o Paul Virilio. Più in dettaglio, con la formula si intende il progressivo affermarsi, nelle università statunitensi, di un corpus così denominato che raccoglie una serie di autori francesi affermatisi nel secondo dopoguerra, nella fase successiva a quella egemonizzata da Sartre e dai fasti dell’esistenzialismo.
L’artefatto del declino
Ovviamente, sulla base dei criteri della storia della filosofia, unire sotto la stessa etichetta il marxismo strutturalista di Althusser e il tortuoso percorso teorico di Foucault, il sensazionalismo apocalittico di Baudrillard e la sociologia della scienza di Latour, l’elusione della filosofia nella pratica della scrittura di Derrida o la filosofia, pervicacemente rivendicata come tale, di Deleuze può apparire una forzatura al limite del non senso. E tuttavia, al di là della sua implausibilità teorica, l’artefatto French Theory esiste, in quanto corpus di testi, problemi, stilemi, percepito come tale sia da coloro che a esso si richiamano sia da chi lo stigmatizza come principale responsabile della decadenza della cultura e dei costumi americani. Da questo punto di vista, Cusset procede in una prospettiva di sociologia della cultura, tenendo fermo il carattere prettamente americano dell’oggetto French Teory, interrogandosi non tanto sulla sua coerenza teorica o il grado di fedeltà al pensiero degli autori a cui fa riferimento quanto sulle modalità e i passaggi storici attraverso i quali una serie di nomi propri si è costituita come canone e sulle sue ricadute politiche e culturali.
Tutto inizia con un convegno tenuto nel 1966 alla Johns Hopkins, a cui partecipa un ampio spettro di pensatori francesi, da Lacan a Derrida passando per Barthes e Girard, dal quale si genererà l’etichetta «poststrutturalismo». Poi si avrà la vicenda della ricezione statunitense di Jacques Derrida, che procurerà una fama al filosofo francese che non trova riscontri nel Vecchio continente. Già in questo caso, emerge un tratto che si rivelerà una costante nelle avventure della French Theory. A manifestare interesse verso l’autore di La scrittura e la differenza sono i dipartimenti di letteratura e non, come ci si sarebbe potuto aspettare, quelli di filosofia. In questi ultimi, infatti, dominava (e domina tuttora) una stretta aderenza al modello analitico, per il quale da Hegel in poi, se non addirittura da Kant, gli approcci filosofici rubricati come continentali altro non sarebbero se non fumisterie metafisiche o un incessante interrogazione su problemi mal posti o risolvibili attraverso l’analisi della proposizione. A ciò si potrebbe aggiungere che in ambito sociologico l’egemonia del funzionalismo e degli approcci quantitativi non costituiva certo il contesto ideale per l’affermazione di problematiche passibili di suscitare perplessità in termini di scientificità .
All’interno di tale paesaggio, non stupisce che ai dipartimenti di letteratura e inglese sia stata consegnata negli Stati uniti la funzione di luogo per eccellenza di elaborazione di saperi di sintesi, di ambito privilegiato di generalizzazione e di presa di posizione sul presente che in altri contesti spetta ai dipartimenti di filosofia e scienze sociali. Cusset ricostruisce i principali passaggi in cui, all’interno dell’enciclopedia americana, il campo letterario afferma una particolare vocazione egemonica in cui all’impegno teoretico si accompagna una postura critica, anche se spesso di tipo elitario o paternalistico, nei confronti della cultura di massa o degli imperativi utilitaristici, lungo un itinerario che dagli arnoldiani giunge fino ai «New Critics». Ed è proprio il testualismo di questi ultimi che dissoda il terreno per la ricezione/elaborazione della French Theory. In tal senso, l’innesto di nuovi schemi teorici, in primis la decostruzione derridiana, permette al primato letterario di riconfigurarsi in termini «colonizzatori» attraverso la diffusione di una prospettiva pan-narrativista: se ogni disciplina si esprime attraverso retoriche e narrazioni, se tutto è letteratura, gli strumenti dell’analisi letteraria si propongono come metadiscorso in grado di entrare criticamente, relativizzandoli, nei discorsi dei vari specialismi, dal diritto alla storia, dalla scienza alla filosofia.
Una sinistra da campus
Cusset colloca l’insediamento della French Theory in una precisa congiuntura politica, collocabile a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Con l’esaurirsi della spinta del Mouvement e della controcultura, la dissidenza manifesta la tendenza a ridefinirsi, nel contesto universitario, in termini di politica dell’identità e dello stile di vita. Nello spazio separato – socialmente e geograficamente – del campus (una sorta di versione friendly dell’istituzione totale) la militanza assume forme esclusivamente culturali. Il materialismo testuale, che in autori come Paul de Man si caratterizzava in termini di gioco ermeneutico si carica così di una immediata politicità e la critica all’oggettivismo, sulla scorta di Derrida, Lacan o Foucault, si muta in denuncia dell’ubiquo imperialismo del «fallologocentrismo» del maschio bianco. Un autore come Baudrillard, scarsamente preso sul serio in Europa o in altre parti del mondo, viene investito dell’improbabile ruolo di fustigatore di un universo simulatorio e mediatico che si sarebbe sovrapposto al mondo reale. Il concetto di lingua minore proposto da Deleuze e Guattari diviene il fulcro per rivendicazioni identitarie di tipo minoritario, in termini che difficilmente avrebbero incontrato il consenso degli autori di Mille piani. La differenza o differanza, svolge un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle posizioni differenzialiste del pensiero femminista e dei gender studies, con esiti spesso reificanti e sostanzialisti, nei confronti dei quali reagiranno le punte più avanzate dei queers tudies o del cyberfemminismo. Accanto ai dipartimenti di letteratura, infatti, sono quelli di cultural studies a costituire il principale veicolo di circolazione della French Theory, attraverso la costituzione proliferante di una serie di campi (i chicanos studies contrapposti ai mexican studies) in cui esigenze politiche identitarie si coniugano a strategie di differenziazione/concorrenza accademica. Per una sorta di nemesi, il reietto Hegel, del quale tutti invitano a sbarazzarsi, sembra regnare sovrano, in una lotta per il riconoscimento, di sè, del gruppo di appartenenza, dei torti del passato, del presente e del futuro, in cui non sembra esserci spazio per altre istanze politiche. Indicativa, in proposito è anche la parabola dei cultural studies dedicati all’analisi della cultura pop e dei consumi, in cui il ricercatore sembra spesso rassicurarsi circa il proprio posizionamento politico attribuendo una valenza di resistenza alle scelte in materia di abbigliamento, culto dei brand o fruizione dei media.
L’intera ricerca di Cusset è percorsa da un’interrogazione: come si è potuta verificare una totale autoreferenzialità del radicalismo politico statunitense, integralmente consegnato a un ripiegamento testualista e a una dimensione di posizionamento accademico o di conflitto sulla determinazione del canone? Ma, soprattutto, come ciò è potuto avvenire assumendo come referenti autori spesso associati, ad altre latitudini, a un ripensamento del conflitto e della trasformazione sociale? Per Cusset a incidere è stata, in primo luogo, la realtà separata del università che, unita alla debolezza della sfera pubblica e alla mancanza di strutture politiche di sinistra radicate che potessero svolgere una funzione di referente e di mediazione con il mondo sociale, avrebbe condannato il radicalismo da campus a una dimensione verbale e verbosa, del tutto aliena da contatti con poste in gioco politiche e sociali collocate al di fuori dell’ambito culturale. Più nello specifico del ruolo della French Theory, poi, si sottolinea come la ricezione di una serie di autori francesi all’interno dei dipartimenti di letteratura abbia avuto la conseguenza di selezionare alcuni aspetti del loro pensiero svincolandoli dal quadro filosofico e politico all’interno dei quali erano stati concepiti. A ciò si aggiungerebbe, poi, il fatto che il principale tramite per la conoscenza della teoria francese sarebbe stato rappresentato soprattutto dai reader, da sillogi dedicate ad autori e correnti che avrebbero selezionato e gerarchizzato i testi collocandoli all’interno di cornici problematiche che ne avrebbero sovradeterminato la ricezione.
Verbosi narcisi
Dal punto di vista politico, il bilancio della French Theory tracciato da Cusset appare decisamente negativo. In sintesi, essa avrebbe contribuito ad anestetizare alcuni dei percorsi politico-teorici più radicali del tardo Novecento finalizzandoli alla legittimazione di una pletora di generi e sottogeneri accademici in uno strano mix cui presunzione, narcisismo ed estremismo verbale fanno da contraltare all’impotenza politica. La diagnosi di Cusset, pur per molti versi condivisibile potrebbe apparire ingenerosa. Ma il punto non è questo. French Theory è uscito in Francia nel 2005. Manca quindi un capitolo, relativo al movimento Occupy, che presumibilmente avrebbe rappresentato l’occasione non per una semplice mise à jour dei temi del libro ma per introdurre un mutamento di prospettiva. All’interno di quelle mobilitazioni, infatti, temi, spunti e parole d’ordine riconducibili a Foucault, Deleuze o Derrida hanno svolto un ruolo decisivo, e non certo nei termini disincarnati e testualisti della campus left. A partire da ciò, ci sono tutti gli elementi per riaprire un’interrogazione a proposito degli effetti della French Theory sul radicalismo statunitense.
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Opere critiche rinchiuse nei campus universitari
La filosofia ridotta a post-it o a una serie di frasi criptiche che nulla dicono della realtà contemporanea. La ricezione statunitense di autori eterogenei come Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Michel Foucault, Paul Virilio, Bruno Latour ha privilegiato una semplificazione a colpi di parole stereotipate e decontestualizzate. La «French Theory» può essere tranquillamente sintetizzata così. Non è dato sapere la reazione degli autori interessati da tale operazione. È noto che Derrida abbia soggiornato più volte negli Stati Uniti. Così come sono noti alcuni seminari tenuti da Foucault. Poco conosciuti sono gli scritti in cui ironizzano la riduzione del loro percorso teorico a una successione di post-it. Il volume di Franà§ois Cusset è però importante laddove sottolinea due aspetti. Il primo è la depoliticizzazione alimentata dalla cosiddetta «French Theory». La seconda è che rispetto ai testi – pochi – tradotti negli Stati Uniti, gli stessi autori avevano preso, senza clamore, congedo, indirizzando la loro riflessione su altri terreni.
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