Quel covo senza più tracce del passato un mistero di Stato lungo vent’anni

by Sergio Segio | 4 Gennaio 2013 9:43

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PALERMO — L’indagine sulla trattativa era partita da lì e dopo vent’anni torna sempre lì: al covo di Totò Riina. È il grande mistero palermitano. Mai ufficialmente perquisito e mai ufficialmente sorvegliato. In apparenza abbandonato, in realtà  ripulito e svuotato per cancellare il passato di un boss.
È quel covo che segna il confine fra un prima e un dopo in tutte le inchieste poliziesche dell’antimafia in Sicilia. Oggi, dopo tanto tempo, si riparla della villa nel quartiere dell’Uditore di Palermo con un anonimo che racconta retroscena su ciò che accadde in una fredda mattina dell’inverno del 1993. Scrive dell’archivio del capo dei capi trafugato, nascosto con il suo carico di «carte scabrose» in una caserma prima di farlo sparire per sempre.
L’autore della lettera fornisce su se stesso particolari estremamente precisi per accreditarsi come attendibile, ricorda gli avvenimenti come un protagonista che li ha vissuti, riferisce su precise azioni di reparti investigativi speciali e territoriali, insomma fa capire di essere un testimone oculare. Come per l’arresto di Totò Riina.
Quella che ai giorni nostri viene definita l’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia ha la sua origine proprio nella cattura del boss di Corleone dopo 24 anni e 6 mesi di latitanza, dalla mancata irruzione nella casa dove si nascondeva, dalle contradditorie e ambigue dichiarazioni dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale che presero Riina il 15 gennaio 1993.
È allora che cominciano ad allungarsi le ombre su quella che fu presentata come una «spettacolare operazione» di polizia giudiziaria ma che manifestava visibilmente — da subito — alcune «anomalie». I carabinieri — allora il Ros era comandato dal generale Antonino Subranni e il suo vice era il colonnello Mario Mori, tutti e due nel 2012 indagati «per attentato a un corpo politico» nell’inchiesta sulla trattativa — arrestarono Riina e per 19 lunghissimi giorni nessuno al di fuori di loro seppe più nulla di quello che stava succedendo dentro quel covo. Formalmente dovevano tenere sotto controllo la villa, nei fatti poche ore dopo l’arresto sospesero clamorosamente ogni sorveglianza.
La cronaca di quei giorni è riassunta in quattro date. 15 gennaio 1993, il Ros convinse il procuratore capo Gian Carlo Caselli (il magistrato si era insediato a Palermo
alle 10 di quel mattino) a non perquisire il covo per tenerlo d’occhio, ma nello stesso pomeriggio abbandonò la sorveglianza «senza preavvertire alcuno ». 27 gennaio 1993, il vicecomandante del Ros Mario Mori comunicò al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò che «l’osservazione del covo di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante». 30 gennaio 1993, il procuratore capo Caselli scoprì che «le attività  di osservazione del complesso di via Bernini erano state invece dismesse poche ore dopo l’arresto del latitante Riina Salvatore». 2 febbraio 1993, i magistrati e i carabinieri dell’Arma territoriale entrarono in una villa «dove lo stato dei luoghi, pareti, mobili, rivestimenti, era ormai radicalmente diverso da quello proprio dei luoghi abitati».
Perché il Ros aveva lasciato il campo? Perché non aveva avvertito i procuratori? «Un disguido», si sono sempre difesi. Una manovra diversiva per permettere un blitz clandestino dentro il covo di Totò Riina, è sempre stato il sospetto dei magistrati.
N’è nata un’inchiesta dove la procura ha evidenziato tutti i «buchi neri» nella versione del Ros, poi il processo è finito con un’assoluzione per tutti. Ma subito dopo n’è cominciato un altro.
Da una mancata perquisizione a una mancata cattura. Dal covo di Totò Riina ai 43 anni di latitanza dell’altro Corleonese, Bernardo Provenzano. Secondo le tesi dei pm siciliani, Riina fu venduto e in cambio sarebbe stata garantita la libertà  al ricercato numero uno d’Italia. Un altro sospetto che si è trasformato in un secondo processo, con imputati per favoreggiamento a Cosa Nostra sempre il colonnello Mario Mori e il suo vice Mauro Obinu. Pezzi di trattativa.
Cosa torna e cosa non torna in questa ricostruzione? Qualsiasi mossa abbiano fatto quelli del Ros intorno al covo, l’hanno fatta perché comandati. Non hanno deciso in autonomia in via Bernini e non hanno favorito per loro scelta — se mai verrà  provato — la fuga di Provenzano. Hanno ricevuto ordini. Dall’alto. Fino a quando non si scoprirà  chi ha dato quegli ordini, l’inchiesta sulla trattativa resterà  incompiuta.
Cosa c’è di veramente inedito nell’ultimo anonimo? L’indicazione su chi avrebbe sottratto l’archivio di Riina. Fino a ieri sapevamo che erano stati alcuni mafiosi. Adesso qualcuno ci informa che quel tesoro è finito in una caserma.

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