“Quattro reclusi in 9 metri quadri ecco la nostra vita all’inferno tra freddo, sporcizia e malattie”

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Storie di dannati e di gironi infernali. Prendete Mohamed El Haili, marocchino di Khourigba, 36 anni, ufficialmente operaio a Enna, dentro alle Novate di Piacenza dal febbraio 2008 per spaccio. Entra nel buco, senza riscaldamento d’inverno quando ci si copre come si può, con gli sbarroni di ferro che non fanno passare luce né aria e da fine giugno ad agosto si crepa di caldo e di sudore. Febbre, sete, puzzo. Esce 29 mesi dopo, il ricorso che mette in mano all’avvocato Giuseppe Rossodivita ha la forma asettica di un modulo di sei pagine e la sostanza di una supplica postuma. «Sono stato ristretto in una cella della sezione C di 7 metri quadri. Da questi dovevo sottrarre tre metri quadri di mobilio». Sono i letti a castello, ferro battuto, il posto più in alto è il peggiore perché dormi faccia al soffitto e quello tocca all’ultimo arrivato. A volte cadi, nel sonno, e ti rompi un braccio e finisci in infermeria, dove almeno si sta larghi perché più di due per stanza non si può. «Ci vivevo insieme ad altri due detenuti per 18 ore al giorno, avevo meno di 2 metri quadri per muovermi. Non c’erano servizi igienici ».
Nemmeno il bugliolo, il medievale secchio per i bisogni. Uscito dall’inferno, ne dovrà  passare un altro di carte bollate quando lo Stato gli ricorre contro addossandogli l’onere della prova, ma sono inezie ormai rispetto al buco.
Funzionava così alle Novate. Con le celle al massimo di nove metri quadri, minimo tre detenuti, un tavolino dove mettere il fornelletto e due sgabelli, e a turno uno a mangiare in branda o sulla tazza del cesso, quando c’è. Con l’acqua calda inesistente dietro le sbarre, e tre giorni a settimana nelle docce. Con una popolazione che esonda di continuo, in una struttura costruita per ospitarne 178 e tollerarne al massimo 375, fino ai 415 di un anno fa, anche se «oggi sono 318 — sostiene la direttrice Caterina Zurlo — ed è in via di ultimazione un nuovo padiglione da 200». Roba che «manco nei canili», spiega Afrim Sela, detenuto albanese che ci passa 14 mesi tra il 2009 e il 2010, quando affida la sua difesa all’avvocato Flavia Urciuoli. Roba che anche quando hai ragione, e te lo riconosce il Provveditorato regionale, resti lì dove sei. Succede a Tarcisio Ghisoni, dentro dal 2007 per storie di cocaina: passa due anni nel buco da 9 metri quadri per tre poveri cristi, gli viene accolto il ricorso ad agosto 2009 ma in una cella da due persone verrà  trasferito solo sei mesi dopo. È uscito qualche giorno fa, voglia di parlare e ricordare non ne ha.
A Busto Arsizio, l’altra maglia nera condannata dalla Ue, si ribellarono in 34 al carnaio. Struttura moderna, per carità , con cioccolateria e laboratorio del pane, sala attrezzi e serra, biblioteca e calcetto. Solo che, dai 167 previsti e dai 345 tollerati, a ottobre 2011 si erano ritrovati in 455, «tanto che — spiega il direttore Orazio Sorrentini — dichiarammo il tutto esaurito e parlai col procuratore capo. Oggi siamo 399 e paradossalmente stiamo tranquilli».
Non la pensò così Mino Torreggiani, 64enne ex rapinatore di Tir, che firmò un ricorso insieme ad altri 33 detenuti. Non ne potevano più del tre per nove, meno letti e tavoli e wc. Di ricorsi hanno accolto il suo e quello di Bazoumana Bamba e di Raul Riccardi: i primi tre nomi dei tre fogli del listone dei 34, pare fatto apposta. Anche il fatto che a Strasburgo ci sono andati da soli, senza avvocati, a difendersi contro il Ministero. Hanno vinto lo stesso.


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