by Sergio Segio | 12 Gennaio 2013 7:50
Ventisette saggi in oltre 500 pagine pubblicate in Creative Commons, più, in appendice, un «oggetto socioartistico» del collettivo presque ruines con lo sguardo di Guattari su Kafka, che vale almeno il doppio del prezzo dei due volumi cartacei, pubblicati dalla casa editrice i libri di Emil (www.ilibridiemil.it). Si tratta di Mappe della Precarietà , a cura di Annalisa Murgia ed Emiliana Armano, un intenso lavoro di conricerca sitematico sulla precarietà in Italia, già solo per questo meritevole di esser letto e diffuso. È infatti una vera e propria impresa editoriale che attacca su tutti i piani e a tutti i livelli il regime del lavoro precario che il postfordismo consegna come lascito terrificante e ammaliante alla nostra modernità in crisi. Con un’attività davvero imponente di autoinchiesta dal 2010, a cui hanno risposto 60 tra ricercatori, dottorandi, collettivi di artisti, i due volumi costituiscono lo studio più accurato e insieme effervescente del mercato del lavoro degli anni Duemila.
La scansione temporale del testo va considerata: tra gli sguardi teorici sulla «prima» precarietà degli anni Novanta, da quelli di Robert Castell, Pierre Bourdieu, Ulrich Beck, a Sergio Bologna e Andrea Fumagalli, ai recenti testi di Richard Florida, Guy Standing, Andrew Ross, milioni di vite sono state stritolate dalla macchina di governo che il capitalismo cognitivo e relazionale ha disposto. Ma, a differenza dei due scorsi decenni, in cui, come in molti dei saggi è scritto, le «politiche del lavoro» erano conseguenze delle lotte per l’estensione dello stato sociale, negli anni della crisi finanziaria le «riforme» della formazione e del lavoro invece di costituire un orizzonte di sicurezze nello scenario devastante dell’instabilità , si sono servite dei residui di governo pubblico dell’economia per approntare micidiali meccanismi di esclusione e marginalità . Non a caso proprio su lavoro e università e scuola, la sobrietà dei ministri si è applicata meglio. Come ricordano alcuni dei saggi del primo volume, l’esperienza della precarietà non riguarda solo il lavoro interinale e a tempo determinato, ma tracima e si estende agli autonomi e finto autonomi del mondo parasubordinato e delle partite Iva mascherate; tra chi lavora a tempo indeterminato nelle piccole imprese e nel sistema degli appalti; e si presenta inoltre come condizione esistenziale che riguarda giovani, donne, migranti, soggetti poco tutelati da un welfare modellato su un mondo fordista sempre meno diffuso e accessibile.
In questa caterva di profili non contrattualizzati alcune proposte regolative hanno tentato di riordinare la «materia precariato»: dalla nota idea di Boeri e Galasso del contratto «unico» a tempo indeterminato, passando per le varie proposte di legge presentate in parlamento nel corso dell’ultima legislatura. Aspetto comune a tutti i progetti era la diminuzione del divario tra insider e outsider nel mercato del lavoro e l’elaborazione di tutele nel passaggio tra un lavoro e l’altro e di interventi sul fronte pensionistico. Di tutto ciò, come è noto, non vi è alcuna traccia, né nelle politiche anticrisi del Governo, né nella Riforma del Mercato del Lavoro 2012, che sancisce la discriminazione dei lavoratori flessibili: mantiene in vigore quasi tutte le forme di precariato; assicura – con molte condizioni – una copertura limitata e selettiva a una piccola percentuale di precari che perdono il lavoro (mini Aspi); non ostacola il ricorso delle aziende alle false partite Iva, e soprattutto aumenta l’aliquota previdenziale di collaboratori e professionisti al 33%.
Per questo lo strumento della conricerca, che le curatrici del testo mutuano da Romano Alquati e dalla pratica operaista dell’inchiesta, diviene essenziale per far luce su alcuni elementi della fenomenologia dei processi di sussunzione della soggettività del lavoro della conoscenza. Da un’inchiesta sociale svolta tra lavoratori e lavoratrici dell’informatica e dei nuovi media, emergono alcuni tratti tipici e insieme ambivalenti del lavoro postfordista. Le parole chiave della precarietà evidenziano il processo di «traduzione» nel quale le knowledges da bene personale e sociale a circolazione informale sono trasformate in prezioso capitale intellettuale dell’impresa. È il nuovo paradigma basato sullo sfruttamento delle dinamiche di apprendimento-cura-interrelazione, che si caratterizza per una organizzazione sociale e del lavoro che fa leva sul rapporto tra condivisione delle conoscenze ed espropriazione. In alcuni saggi infatti, con la finanziarizzazione dell’economia e la diffusione della precarietà strutturale, nella critica ai «cantori della flessibilità spinta» e della womenomics, sono analizzati i cambiamenti dell’attuale modello economico, definito foucaultianamente «modello della cura» proprio per il fatto di aver incorporato le doti, tradizionalmente femminili, della duttilità , del multitasking, dell’obbedienza, del lavoro gratuito, dell’ascolto e della propensione alla cura. Quella che è stata definita «femminilizzazione del lavoro» non è stata sinonimo di maggior «equilibrio di genere» nel mondo del lavoro, ma si è tradotta in una generalizzazione di precarietà e sfruttamento, che da sempre caratterizzano i lavori delle donne. Ciò accade perché nel ciclo di accumulazione flessibile, conoscenza e risorse umane diventano fondamentali nei processi di valorizzazione; l’auto-attivazione, l’immedesimazione e l’autonomia, più in generale l’identità della natura umana neoliberale, sono al centro della strategia delle «industrie creative». Promuoverle è stato il modo più efficiente di generare nuove attività in tempi di crisi.
Le industrie creative, intese non come un insieme di concreti settori produttivi, ma come una modalità di relazionarsi al lavoro, sono diventate prominenti nelle nuove politiche che incoraggiano gli appartenenti a tutte le componenti sociali a sviluppare abilità pro-attive e creative. Attraverso retoriche di auto-realizzazione, professionalità e meritocrazia si convincono i soggetti a scegliere di autoposizionarsi in un campo di intenti e aspirazioni completamente diverso dal campo di valori e scelte del passato. Lo si vede chiaramente nelle università , laddove il nodo problematico riguarda il rapporto tra formazione e lavoro. Per sua natura, il lavoro in università , essendo centrato sulla produzione e diffusione di conoscenza, si sviluppa come un processo di apprendimento continuo, in cui il confronto e lo studio rivestono un ruolo chiave. Per questa ragione, è complicato stabilire un confine tra formazione e produzione. Il frutto più amaro di una continuità perversa è l’aziendalizzazione, ossia quel processo di trasformazione secondo i dettami del mercato, con la conseguente attivazione di specifici dispositivi di cattura del sapere vivo.
Ma da qui, dalle caratteristiche del mercato della precarietà esistenziale nascono processi di soggettivazione e dimensioni di rivolta che uniscono settori sociali non rappresentati, in conflitti per la riappropriazione del comune. Da questi conflitti, sempre più, si generano pratiche generalizzanti, a patto però di non richiudersi nella rivendicazione corporativa o nella spasmodica ricerca di un consenso politico, oggi più di ieri, impraticabili.
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