Per favore, meno muscoli e più cervello

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L’azione militare della Francia in Mali ripropone una vecchia logica interventista – di stampo neocoloniale – che utilizza la grave crisi del paese e i rischi della diffusione del terrorismo integralista come pretesti per un controllo geopolitico dell’area e, forse, anche delle sue materie prime (a partire dall’uranio). La crisi del Mali non è recente, rimanda al colpo di stato del marzo 2012, alle tensioni interne alla società  maliana, all’incapacità  di gestire la transizione politica in una fase estremamente delicata, alle interferenze di paesi e gruppi esterni, con la diffusione di un terrorismo aggressivo rinfocolato dalla crisi libica. Ma rimanda soprattutto alla nostra cecità , all’inerzia della comunità  internazionale, che in questi anni non è riuscita a costruire una soluzione positiva – rispettosa dei diritti umani e della democrazia – alle tensioni e ai conflitti che andavano emergendo nell’area. Come nel caso della Libia, anche in Mali è stata preferita la soluzione militare, che risponde ad altre logiche, quelle della geopolitica e del controllo neocoloniale. In Mali si rischia una sorta di Afghanistan africano: un’escalation di terrorismo e intervento militare occidentale che non elimina il terrorismo, ma lo alimenta.
Sul piano formale, l’intervento francese non ha a che fare – come qualcuno ha voluto avvalorare – con la risoluzione 2085 delle Nazioni Unite del 21 dicembre scorso che prevede altri interventi e auspica – esclusivamente – una forza panafricana di mantenimento della pace con l’ausilio finanziario dell’Unione Europea. Si può quindi dire che la Francia stia operando al di fuori di quella risoluzione. Ecco perché è sbagliata la posizione italiana: l’invio di istruttori, di due aerei C-130 (trasporto mezzi e truppe) e di un 767 per «il rifornimento in volo sul Mediterraneo, nonché e v e n t u a l m e n t e tra il Mali e altri Stati della Comunità  economica degli Stati dell’Africa occidentale», non va derubricato a semplice sostegno logistico.
È un vero e proprio endorsement , concreto quanto può essere ogni atto politico, all’intervento armato francese. A chi sostiene l’iniziativa militare della Francia e dei suoi alleati, a chi crede che sia l’unica soluzione della crisi maliana, l’unico strumento per ridare stabilità  al paese e riavviarlo alla democrazia, non si può che rispondere (come ricordava Tommaso Di Francesco su il manifesto del 24 gennaio) che «la scelta della guerra è assolutamente alternativa alla democrazia», oltre che contraria al nostro dettato costituzionale. A chi sostiene che la guerra sia la soluzione più efficace e veloce – tra questi il ministro della Difesa Di Paola che ha prefigurato un impegno italiano di «due, tre mesi» – bisogna ricordare che, invece, oltre ad essere una scelta inaccettabile sarà  inevitabilmente lunga. E pesanti saranno le conseguenze sul piano politico, sociale ed economico. I casi recenti, dalla Libia all’Afghanistan, lo dimostrano, come ha ricordato lo stesso premio Nobel per l’Economia, Stiglitz, in un articolo sul Financial Times del 22 gennaio.
Per affrontare e risolvere il dramma del Mali servirebbero meno “muscoli” e più cervello, meno truppe e più diplomazia, un passo indietro dell’occidente neocolonialista e un passo avanti delle Nazioni Unite e dei paesi africani, i veri protagonisti della possibile soluzione del conflitto. Quanto all’Italia, è necessario spingere il governo a promuovere un piano di aiuti umanitari a favore della popolazione, a farsi portavoce di un impegno diplomatico che per prima cosa isoli le questioni relative alle tensioni inter-comunitarie della società  maliana da quelle relative alla sicurezza della regione del SahelSahara. Come pacifisti ed esponenti dei movimenti sociali, possiamo contribuire alla soluzione nonviolenta del conflitto, riprendendo il filo di un impegno comune con la società  civile del Mali che ci portò a promuovere il Forum sociale mondiale nel 2006 a Bamako. Scoprimmo allora tantissime organizzazioni, movimenti e gruppi della società  civile del Mali, capaci di mobilitarsi e coordinarsi per far avanzare la democrazia e i diritti umani di quel paese e di porsi come baricentro dei movimenti sociali africani. Il Mali non ha bisogno di truppe straniere, ma di condividere con i paesi africani la soluzione del conflitto e di avere dalla comunità  internazionale aiuti umanitari e il sostegno alla crescita della democrazia e della società  civile.
L’incontro di Bruxelles del 5 febbraio, a cui parteciperanno, oltre all’Unione Europea, Ecowas, Unione africana e Onu può essere l’occasione giusta per far sentire le nostre posizioni. Il terrorismo si può e si deve debellare. Non con l’interventismo occidentale, ma con una strategia paziente fatta di lavoro di intelligence , di prevenzione, di costruzione della democrazia, di sostegno alla società  civile e di condizioni di giustizia economica e sociale. È questa la strada da percorrere. Non quella delle bombe.


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