by Sergio Segio | 31 Gennaio 2013 7:55
C’è stato un tempo in Italia in cui le partite Iva erano, almeno elettoralmente, coccolate. Rappresentavano, come sintetizza il parlamentare Giuliano Cazzola, «il nuovo che avanza», erano riconosciute come portatrici di un nuovo modo di lavorare, di una rivoluzione terziaria che rivalutava la competenza a scapito della gerarchia. Su questo format, che da una parte registrava gli slittamenti dell’economia e della società e dall’altra li timbrava politicamente, sono cresciute le fortune del forza-leghismo. Da allora molte cose sono cambiate e alla vigilia del voto del 24 febbraio le partite Iva — che pure rappresentano una constituency elettorale da almeno 8 milioni di voti — sono state di fatto silenziate. Dice Anna Soru, presidente di Acta, un’associazione del terziario avanzato tra le più combattive: «Leggo che in Parlamento aumenterà il numero degli ex sindacalisti e mi faccio la convinzione che dietro questi nuovi innesti ci sia l’idea di un ritorno all’assoluta centralità del lavoro dipendente». «Per noi», continua, «non ci sono avventure politiche, c’è solo il prosaico aumento dei contributi previdenziali che è già al 27% e arriverà al 33% dei ricavi». Un euro ogni tre incassati.
Ma perché, pur dovendo rastrellare voti, i candidati hanno una sorta di ritrosia a parlare di/alle partite Iva? In Veneto è successo che i candidati di Pdl e Lega non si siano presentati lunedì scorso alla giornata di mobilitazione indetta da artigiani e commercianti di Rete Imprese Italia, che offesi hanno tuonato: «Evidentemente pensano che i nostri siano voti sicuri per loro, ma si sbagliano». Secondo Roberto Weber, direttore di Swg, «la credibilità delle proposte avanzate in queste settimane risulta molto bassa, l’80% degli elettori le giudica propagandistiche». Questo vale per la sbandierata riduzione delle tasse ma ancor di più per il mercato del lavoro, «sono tanti e tali gli elementi di contraddizione nella società che nessuno tenta di articolare le parole d’ordine generali in temi da proporre ai vari segmenti dell’elettorato». In quest’opera di rimozione un ruolo importante lo gioca la debolezza dei partiti, ma anche la legge Fornero ci ha messo del suo.
Prendiamo proprio le partite Iva che avevano accolto con un certo favore l’avvento di un governo che si dichiarava aperto al nuovo e contrario alla concertazione Confindustria-sindacati. È vero che con Monti a Palazzo Chigi c’è stata la prima audizione parlamentare dedicata alle partite Iva, ma alla fine il giudizio è risultato negativo. «Lo scambio tra aumento della contribuzione in funzione di una qualche certezza pensionistica non c’è stato», osserva Costanzo Ranci, docente al Politecnico di Milano e autore di un libro sulle partite Iva che sarà presentato dalla Camera di Commercio di Milano giovedì 7 febbraio, in piena campagna elettorale. «Fornero è sembrata voler allargare l’area del lavoro dipendente seppur con il nobile scopo di ridurre l’arbitrio, ma ha finito per negare anche lei l’identità del lavoro autonomo».
Di vero c’è che le partite Iva costituiscono un comparto del mercato del lavoro estremamente complesso. Volerle ridurre ad unum è impossibile perché differiscono per priorità , consumi, antropologia. Sono almeno tre i tronconi da tener presenti: a) gli artigiani e i commercianti titolari, «la pancia del Paese» molto sensibile ai temi del fisco e della lotta alla burocrazia; b) i lavoratori della conoscenza che non sono patrimonializzati guardano innanzitutto all’aggiornamento del proprio capitale umano e lavorano in assenza di strumenti di welfare; c) le partite Iva del lavoro povero e legato a un solo committente. Ad allargare le file degli ultimi due tronconi intervengono i processi di esternalizzazione delle imprese, grandi e medie, che si strutturano sempre più come delle reti e tendono a dare in outsourcing anche lavorazioni standardizzate, a scarso valore aggiunto. Gli alberghi tendono a dar fuori persino il lavoro dei camerieri ai piani. E altrettanto significative sono le trasformazioni indotte dal franchising o dallo sviluppo dell’e-commerce.
È chiaro che agli occhi della politica si tratta di processi troppo sofisticati da leggere, che inducono alla cautela. Il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, in una fase precedente del suo impegno aveva rivolto attenzione a questo mondo. Aveva partecipato persino a un incontro di Imprese che Resistono, l’associazione di Luca Peotta, e aveva proposto di alzare il forfettone fiscale dai 30 mila euro attuali a 70-80 mila, attirandosi critiche di massimalismo da parte di Cna e Confesercenti. Oggi il suo partito sembra essere monopolizzato dalla constituency del lavoro dipendente, è la Cgil che detta legge sul lavoro e le figure che prevalgono sono quelle di Susanna Camusso e dell’ex ministro Cesare Damiano. Soru è molto critica verso il Pd perché vuole ricondurre il lavoro autonomo a quello dipendente e gli apporti di casa Cisl alle liste (Carlo Dell’Aringa e Giorgio Santini) sembrano comunque parte dello stesso copione.
Anche la Lega è in fase di ripensamento. Nei 12 progetti concreti per far ripartire il Nord, di lavoro autonomo non si parla direttamente, Roberto Maroni propone di riformare il welfare su base regionale ma non è chiaro che impatto avrebbe la novità sulle diverse figure di lavoratori. Tremonti, nel manifesto per il voto, si concentra sulla materia fiscale e chiede l’abolizione dell’Irap per le aziende in perdita, la moratoria della riscossione Equitalia in situazioni di criticità e l’adozione in via sperimentale della simple tax, un’unica imposta sul reddito reale. Il centrodestra, in ogni caso, sembra guardare solo al primo troncone della partite Iva, sostanzialmente agli artigiani.
Comunque, in una campagna elettorale in cui si parla più di cambiare nuovamente la legislazione che di posti di lavoro, tutti gli esperti dei partiti si dichiarano, chi più chi meno, scontenti della legge Fornero. Giuliano Cazzola (Scelta Civica) è capace di citare numerosi esempi concreti nei quali le griglie previste dalla riforma non funzionano, come nel caso dei salesiani di Bologna che avevano in essere 240 contratti di collaborazione di elettricisti e saldatori per le loro scuole di formazione e che alla fine sono stati costretti a stipulare 90 contratti a tempo determinato lasciando però a casa gli altri 150. La verità è che la Grande crisi ha ancor di più articolato la struttura economica, l’ha destrutturata ulteriormente. C’è un mare di lavoro che non riesce a essere regolamentato e in questa Babele il lavoro autonomo di seconda generazione resta senza padri. Come se il Novecento fosse passato invano.
Dice Soru: «Noi lavoratori della conoscenza che investiamo sulla formazione e l’aggiornamento, che accettiamo di lavorare ed essere valutati per obiettivi, che ci assumiamo i rischi, siamo un’area di lavoro preziosa per l’economia e invece il nostro contributo non è riconosciuto e valorizzato». Da un punto di vista strettamente elettorale, per Weber questa delusione rafforza i meccanismi di diffidenza e può andare ad alimentare l’area del non voto o favorire Beppe Grillo. «Siamo nell’epoca del “voto malgrado”», sentenzia. E aggiunge Ranci: «Il lavoro autonomo non è più un serbatoio stabile di voti per il centrodestra». Alle ultime elezioni amministrative di Milano, capitale del terziario avanzato, Giuliano Pisapia si è largamente avvantaggiato del voto dei knowledge worker disaggregando il blocco sociale forzaleghista, ma guai se Pd e Sel pensassero a un replay in automatico. Innanzitutto le partite Iva metropolitane, per cultura politica e stili di vita, differiscono molto da quelle dei territori e poi comunque quel voto era totalmente d’opinione, perché i sindaci non hanno nessun potere in materia fiscale e previdenziale.
Chiunque vinca le elezioni, è chiaro agli esperti che il mondo della partite Iva non può restare schiacciato tra un’economia che si flessibilizza e una politica che non sa che pesci pigliare. Acta propone cinque punti che vanno da un regime fiscale agevolato al salario minimo per evitare il lavoro gratuito, tariffe eque e una giusta pensione oltre a un nuovo welfare mutualistico. Anche Cazzola riconosce che c’è necessità di introdurre forti discontinuità e considera probabile che molte partite Iva siano indotte a cambiare forma giuridica e creino delle società . Per tentare di governare questi processi e ridurre la distanza tra economia e normative, il professor Ranci pensa che una carta da giocare potrebbe essere la flexsecurity che, a questo punto, non dovrebbe riguardare solo i lavoratori dipendenti che perdono il posto, ma anche chi già vive pericolosamente sul mercato. I costi, però, per quello che appare un cambio di paradigma, ammette, «oggi suonano proibitivi».
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