Partita al Senato, cresce l’incertezza E i leader «lasciano» la Camera
ROMA — Lo stallo al Senato per alcuni leader è un incubo per altri un obiettivo, ma non c’è dubbio che a Palazzo Madama si giocheranno le sorti della prossima legislatura. Stavolta però, al contrario del 2006, non sarà solo una questione di numeri, anche se la composizione della Camera alta detterà l’agenda nelle scelte politiche e sarà determinante per la governabilità . Ed è quindi chiaro il motivo per cui le attenzioni dei tre schieramenti sono concentrate sul Senato, perciò molti capipartito si apprestano a traslocare dopo tanti anni da Montecitorio e intanto commissionano sondaggi a ripetizione sulle regioni che potrebbero indirizzare il risultato elettorale e dunque il loro futuro.
E se è vero che tutti i test demoscopici prevedono la vittoria del centrosinistra alla Camera, al Senato non danno risultati altrettanto omogenei, e i dati dei vari istituti di ricerca nell’analisi delle singole regioni non sono uniformi. Ieri Berlusconi, osservando gli ultimi report, si è reso conto di una forte discrepanza tra chi garantisce alla sua coalizione la vittoria certa in Lombardia e Veneto e chi invece avanza un verdetto negativo. Allo stesso tempo, mentre i rilevamenti in possesso di Bersani danno il centrosinistra vincente in Piemonte, altri sondaggi prefigurano nella stessa regione un testa a testa con il centrodestra. Anche la Calabria — a seconda degli istituti — viene appaltata a uno schieramento o all’altro. E così la Campania e la Puglia per via dei margini ristretti vengono considerati all’apparenza sul filo, con la Sicilia che — secondo i dati dei centristi — per effetto delle alleanze locali dovrebbe finire al Cavaliere.
L’incertezza rende la conta dei seggi approssimativa, sebbene Monti a Palazzo Madama confidi già oggi di conquistarne più di quaranta: trenta collegati direttamente al suo «partito», una decina in quota a Casini e il resto a Fini. Nel Pdl avvisano che il Professore dovrà rifare i conti «al ribasso». Comunque, basterebbe una manciata di voti in una regione per scombinare aspettative e piani. Una vittoria nel Lombardo-Veneto e in Sicilia da parte di Berlusconi, per esempio, avrebbe l’effetto di non garantire a Bersani la maggioranza a Palazzo Madama, e di consegnare alla coalizione montiana l’ipoteca sulla nascita del prossimo governo. Ma se a quelle tre regioni il Cavaliere dovesse aggiungerne un’altra del Sud, il discorso cambierebbe radicalmente, e un’alleanza tra il Professore e il segretario del Pd potrebbe non bastare al Senato.
Ecco perché al momento le strategie politiche sono scritte sulla sabbia, sono una forma di pretattica, un’operazione di puro stampo elettorale. Ecco perché Bersani prefigura un governo di coalizione con il centro anche in caso di risultato pieno. C’è da una parte la prudenza di chi non ha intenzione di precludersi la strada della collaborazione con il premier uscente nella prossima legislatura, e dall’altra la furbizia di attrarre l’area montiana nella sfera di influenza del Pd. Un modo per tenere il sistema bipolare. Altrimenti non si spiegherebbe come mai nelle scorse settimane il segretario democratico auspicasse nelle riunione riservate di partito che Berlusconi chiudesse l’accordo con Maroni…
Il gioco tra il leader del centrosinistra e il leader del centrodestra in questo senso è scoperto, e gli interessi sono convergenti: Bersani lavora a inglobare un pezzo di centro e Berlusconi mira a evitare che il progetto di Monti finisca per emarginarlo in Italia e nel Ppe. Un vero e proprio meccanismo di sostituzione, insomma, che si scorge anche nel modo in cui il Professore ha operato per costruire le sue liste e che — a quanti sono stati nel centrodestra — ricorda «la Forza Italia del ’94»: la macchina delle candidature per Scelta civica — che è stata ereditata dalla creatura politica di Montezemolo — è blindata a tal punto che solo a cose fatte i centristi hanno saputo ieri — con un misto di sorpresa e imbarazzo — della presenza in lista del direttore di Gay.it, De Giorgi.
Stavolta i dirigenti dell’Udc non hanno puntato l’indice verso Riccardi, con il quale ci sono state nelle scorse settimane storie tese sulle candidature, vere e proprie liti che sono valse al ministro il nomignolo di «esorcista». L’ultima parola d’altronde tocca a Monti. Che è convinto di poter operare il «sorpasso» su Berlusconi, e che continua a non fidarsi dei compagni di strada, se è vero che tutti coloro i quali sono stati inseriti in lista hanno dovuto firmare un documento messo a punto da Bondi: una sorta di garanzia che — se eletti —si iscriveranno e faranno «sempre parte» dei gruppi unici parlamentari, alla Camera e al Senato.
A parte i malcelati sorrisi dei candidati di Casini, la prova di forza rivela un indizio di debolezza. E induce Bersani a ragionare non su cosa farà in futuro Monti ma se reggerà in futuro la coalizione di Monti, che al momento appare al leader del Pd «un autobus più che un’alleanza», dove si confrontano obiettivi diversi: c’è chi punta a marcare la terzietà del progetto, chi è propenso a strutturare una collaborazione con la sinistra, chi invece aspira a conquistare l’intero campo berlusconiano, e chi lavora per sé… È una sensazione di provvisorietà che alimenta l’incertezza alla vigilia di elezioni dove oggi azzeccare il risultato del Senato è come indovinare i numeri di una lotteria.
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