by Sergio Segio | 6 Gennaio 2013 8:26
NEW YORK — Dalle Hawaii — nell’ultimo giorno delle sue vacanze di fine anno, interrotte giorni fa per correre a Washington a sventare il fiscal cliff — Barack Obama manda un messaggio minaccioso al Congresso e al mondo intero: «Non farò compromessi sull’aumento del tetto del debito federale: se il Parlamento non darà la possibilità di pagare in tempo le spese che esso stesso ha deliberato, le conseguenze per l’economia globale saranno catastrofiche». Toni apocalittici che confermano quanto già intuito dagli analisti: il compromesso di Capodanno che ha consentito di evitare il baratro fiscale non solo non ha risolto il nodo del debito pubblico ma, anziché rasserenare il clima politico, ha esacerbato la contrapposizione tra il presidente e i repubblicani che alla Camera hanno la maggioranza.
Inferociti perché costretti a rinunciare al loro pregiudizio ideologico sull’aumento delle tasse (peraltro limitato all’1% dei contribuenti più ricchi, mentre per tutti gli altri sono diventati permanenti gli sgravi dell’era Bush), i repubblicani aspettano ora Obama al varco dell’aumento del tetto del debito pubblico — da decidere entro febbraio, pena la bancarotta del Tesoro federale — per ottenere quei tagli della spesa pubblica sui quali il presidente ha preso fin qui solo impegni verbali.
Incalzato dal suo stesso partito che lo accusa di non riuscire a ridurre a più miti consigli i repubblicani nemmeno all’indomani di una sonante vittoria elettorale, Obama in questo momento ritiene di non poter concedere nulla. Ogni apertura sui tagli del deficit verrebbe vissuta dai democratici come un cedimento. Così la Casa Bianca dice no al negoziato (anche se dietro le quinte si ipotizza qualche taglio compensato da altri aumenti del prelievo fiscale), convinta che l’aumento del tetto sia un atto dovuto per un Parlamento che, una volta votate le leggi di spesa, non può, poi, rifiutarsi di fornire al governo gli strumenti necessari per onorare gli impegni presi.
Ma i repubblicani la vedono diversamente e il loro capo alla Camera, John Boehner, non si fa intimidire dalla sortita del presidente: citando i dati di sondaggisti «amici» sostiene che il 72 per cento degli americani vuole che ogni aumento del limite dell’indebitamento federale sia accompagnato da tagli di spesa e da riforme strutturali. Per lui è, quindi, lecito tirare la corda della variazione del tetto del debito per costringere il presidente e un partito spendaccione a tirare la cinghia.
Dal punto di vista politico e istituzionale quella dei repubblicani è una forzatura pericolosa: negando al Tesoro i necessari mezzi di pagamento si rischia di ricreare una situazione caotica come quella di un anno e mezzo fa. Gli Usa pagarono quel mese rocambolesco col «downgrading» del loro debito. Ma i mercati, per nulla spaventati, continuarono a prestare denaro al Tesoro Usa a tassi sempre più bassi. Prima o poi, però, la pacchia finirà e un’altra battaglia traumatica sul tetto del debito, magari accompagnata da un altro «downgrading», potrebbe porre fine alla manna del denaro prestato dai risparmiatori al Tesoro praticamente a costo zero.
Quella dei repubblicani è, insomma, una forzatura. Ma il problema che sollevano è reale: con la manovra di Capodanno il nodo di una spesa ormai straripante è stato appena intaccato. Obama sa che deve agire su tutti i fronti, compresa la spesa sociale che ha un deficit strutturale annuo pari al 7 per cento del reddito nazionale. Se non ora, quando?
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