Obama, discorso sull’uguaglianza «Finite le guerre, ora lo sviluppo»
WASHINGTON — Battaglia a tutto campo per portare avanti i valori tradizionali della sinistra americana: il welfare che non si tocca, l’impegno per gli immigrati, per i diritti della comunità gay, per la sicurezza dei cittadini, che vanno protetti con le armi dello Stato e con l’impegno per la legalità . La fine di guerre interminabili, l’uso delle risorse fin qui destinate al Pentagono per rivitalizzare l’economia. L’improvvisa riscoperta della necessità di un’azione decisa a tutela dell’ambiente. L’«Obama 2» si apre in un clima molto diverso da quello del primo mandato del presidente democratico (Wall Street non vive una vigilia di Apocalisse, non si combatte più in Iraq), ma anche il messaggio del leader è profondamente diverso: insiste con veemenza su un’agenda che ha al centro il concetto di eguaglianza, ha fretta di impostare un’azione di governo incisiva anziché perdersi nei toni morbidi della ricerca di compromessi bipartisan, come aveva fatto, invece, quattro anni fa.
Quello che ha giurato ieri sulle due Bibbie sovrapposte di Abramo Lincoln e Martin Luther King è un Barack Obama che ha sostituito i grandi progetti per il futuro, le promesse di cambiamento radicale, con l’impegno a difendere le conquiste di libertà e benessere. Che, pur consapevole dei gravi problemi di bilancio, rifiuta di tagliare drasticamente la spesa sociale, convinto che il welfare sia essenziale per ridare fiato al ceto medio, per garantire la dignità e la libertà dei cittadini: non un sistema di protezione dei parassiti (polemica «postuma» con Mitt Romney) ma il sistema di garanzie che consente a chi lavora di prendersi quei rischi che fanno grande l’economia americana.
Spariti le parole d’ordine ispirate, i toni kennediani da «nuova frontiera», Obama sulla scalinata del Campidoglio ha pronunciato il discorso di insediamento di un presidente che avanza a fatica su un terreno accidentato e che, come Franklin Delano Roosevelt a metà degli anni Trenta, si rimbocca le maniche per cercare di rimettere in piedi un’economia ancora claudicante. Più che Kennedy, un Eisenhower, il presidente repubblicano che a metà del secolo scorso costruì la sua eredità sulla conclusione della guerra in Corea, il ridimensionamento delle spese del Pentagono e l’investimento delle risorse così risparmiate in grandi progetti come la rete delle «Interstate», le autostrade federali.
Ma Obama sa di avere poco tempo. Cerca di sfruttare la sua recente vittoria elettorale e incalza i repubblicani, che l’hanno fin qui bloccato in mezzo al guado, con una serie continua di richiami all’impegno dei «padri fondatori» e a quel «We the people» (Noi, il popolo), la frase con la quale si apre la Costituzione americana, che la Casa Bianca prova a sottrarre alla retorica della destra americana.
Parate, balli, inni, cerimonie religiose e un banchetto sotto la cupola del Campidoglio, nella «tana del lupo»: il Congresso. Washington ha vissuto sotto un cielo grigio e con le strade invase da una folla molto più ridotta e meno festante di quella di quattro anni fa l’inaugurazione del secondo mandato di Barack Obama.
Comprensibile: l’elezione del primo presidente nero aveva portato nella capitale due milioni di americani che speravano di aver trovato un nuovo messia. Non è stato così e la vena di delusione la si ritrova, oggi, nei numeri (seicentomila presenze stimate, il numero più basso tra le varie previsioni circolate nei giorni scorsi) e nell’atteggiamento di una folla che festeggia compunta, senza eccitazione.
Più che nel tentativo di guardare lontano, di porsi obiettivi ambiziosi, stavolta la forza del discorso di Obama sta nel richiamo alla responsabilità individuali dei cittadini per riprendere la costruzione del Paese secondo il progetto dei padri fondatori. E nel monito ai suoi oppositori, invitati a non osteggiare questo processo «confondendo i principi con l’assolutismo, sostituendo lo spettacolo alla politica».
Un leader che, insomma, sembra sempre più deciso a entrare nel secondo mandato tenendo ben alte le sue bandiere: un presidente «di lotta e di governo» che sfida l’opposizione e negozia con le armi sul tavolo. A cominciare da quella straordinaria macchina elettorale messa in piedi da Jim Messina che, anziché smantellata, viene ora trasformata in uno strumento permanente di battaglia politica a fianco del presidente.
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