by Sergio Segio | 5 Gennaio 2013 9:18
L’avvio delle iniziative di “Cambiare si può” nei giorni successivi all’annuncio delle elezioni anticipate si è caratterizzato per un’inedita ed entusiasmante mobilitazione di migliaia di militanti, intellettuali e semplici cittadini. Questi, affluendo molto numerosi alle assemblee di territorio, hanno sperimentato i caratteri di una partecipazione popolare nuova. Tale mobilitazione era volta, nonostante la ristrettezza dei tempi, all’elaborazione di nuove proposte contenutistiche e metodologiche per la partecipazione alle politiche del prossimo febbraio 2013, e i principi basilari emersi da questa rinnovata presenza dei cittadini nelle cose politiche erano mirati alla formazione di liste provenienti dai territori, formate da persone della società civile scelte direttamente dai cittadini secondo nuovi metodi partecipativi e condivisi.
Mentre nei territori dell’intera penisola si svolgevano assemblee (peraltro, in alcuni casi caratterizzate da forti dissensi, ma è cosa normale), a livello nazionale si percorrevano altre strade molto simili a quelle della vecchia politica, fatte di accordi di vertice. Vero è che il movimento non nasce perfetto ed è migliorabile, ma qui sembrano messi in discussione gli stessi presupposti di un’autentica “rivoluzione civile” poiché si parte da un passo inaccettabile per le caratteristiche del movimento che ne è la base: la candidatura d’ufficio (non rileva se a capolista o al n. 2) dei segretari di partiti che con questo movimento non hanno e non hanno avuto proprio niente da spartire. Se nelle assemblee dei territori (prima di ALBA, poi di “Cambiare si può”) in precedenza si sono pur visti esponenti di questi partiti è stato solo per l’interesse elettoralistico (da “riciclo”) che le assemblee suscitavano in loro.
Un altro aspetto, conseguente, ma non irrilevante, peraltro contraddittorio, è che dopo la vittoria dei sì (mi spiace, ma non è stata una grande vittoria: la democrazia sostanziale ha una rilevanza e a questo referendum ha partecipato circa la metà dei firmatari dell’appello) e la conseguente fuoriuscita (logica e inevitabile) dei tre garanti (Pepino, Revelli, Sasso), nessuno ha ripreso fra i vincitori del sì l’impegno di garantire la presenza di “Cambiare si può” al tavolo di Ingroia. Per quanto molti dei votanti “no” abbiano dichiarato comunque la loro disponibilità a ripartire dalle assemblee anche se in maniera critica. Dunque, siamo senza referenti nazionali, sicché come far prevalere la voce delle assemblee? Come garantire al tavolo di Ingroia «i punti programmatici di – cito Lucarelli – Cambiare si può che hanno ben indicato la strada da seguire»?
In realtà sarebbe possibile battersi perché almeno dai territori arrivino, attraverso le assemblee, nuove candidature secondo nuovi metodi di democrazia partecipativa, ma l’assenza di ogni punto di riferimento organizzativo, purtroppo, fa pensare che nei territori arriverà l’influenza inevitabile dei capi e i candidati verranno scelti, come sempre, secondo logiche che non stanno né in una rivoluzione, né nell’impegno civile come vorrebbe lo slogan di Ingroia. Siamo purtroppo a un empasse particolarmente grave e vedo allontanarsi la possibilità che questa lista migliori anziché peggiorare il rapporto con la società civile, i movimenti e le lotte.
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