Napolitano. Quelle cene a New York parlando di Pci

by Sergio Segio | 13 Gennaio 2013 8:43

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«Io e l’Avvocato? Fu l’America a farci incontrare, la prima volta. Lo ricordo benissimo. E, da allora, è nato un rapporto di curiosità , di simpatia e di dialogo che è andato avanti negli anni. Anni e ricordi nei quali sono entrati, in varie circostanze, personaggi internazionali come Henry Kissinger, Katharine Graham e Margaret Thatcher. Con l’Avvocato, magari a cena, non ci si annoiava mai. Era un gran conoscitore del mondo, e interessato all’evoluzione di quello strano animale che era il Partito comunista italiano».
Giorgio Napolitano, dieci anni dopo la morte di Gianni Agnelli, apre l’album dei ricordi di un rapporto singolare tra il leader storico del capitalismo italiano e un uomo politico e di Stato che è stato per lunghi anni uno dei dirigenti di primissimo piano del Pci.
Un rapporto intellettuale ma soprattutto umano, coltivato da entrambe le parti e che non si è mai interrotto fino alla scomparsa dell’Avvocato.
Presidente, come mai vi siete conosciuti negli Usa? Era più facile vedervi in America che in Italia, allora? «Ma no, Agnelli era un uomo libero, senza tabù o pregiudizi, curioso e attento a tutto ciò che cresceva o cambiava nel nostro Paese. Semplicemente, ci fu questa occasione, preceduta per una singolare circostanza da un “ambasciatore” casuale della sua famiglia. Le racconto: era l’aprile 1978, la data del mio primo viaggio in America, che poi era la prima visita di un dirigente del Pci negli Stati Uniti. Viaggiai per diverse università  che mi avevano invitato, ebbi incontri in centri di formazione della pubblica opinione, dal Council on Foreign Relations alla redazione di Time Magazine, spiegando ovunque la posizione della sinistra italiana e in particolare del Pci, con riferimento al quadro europeo. Poi arrivai alla Woodrow Wilson School of Government a Princeton, dove tenni due conferenze. Alla fine dell’una o dell’altra ci fu il question time, con le domande dei dottorandi, anche pungenti. Un ragazzo in particolare insisteva sulla politica economica del Pci, chiedendomi che legami rimanessero con la dottrina di Marx. Alla fine del dibattito, quel giovane si avvicinò a me tendendomi la mano e presentandosi così: “Piacere, sono Edoardo Agnelli, figlio di Gianni”».
Era inviato dall’Avvocato?
«No, credo che suo padre non lo sapesse. Fatto sta che pochi giorni dopo a New York fui condotto da Furio Colombo nella casa dell’Avvocato in Park Avenue. Sapeva che ero in America, voleva conoscermi. Parlammo vivacemente, dei miei incontri americani in primo luogo, ma anche dell’Italia naturalmente. Curioso, attento, gentile. E, di certo, uomo di visione internazionale. Ecco l’impressione che mi fece subito Agnelli in quell’incontro che rappresentava un inedito o quasi, perché credo che fino a quel momento l’Avvocato conoscesse di persona pochissimi esponenti nazionali del Pci oltre a Giorgio Amendola e Luciano Lama, che aveva avuto come controparte sindacale. Così cominciò una conoscenza, nacque un interesse reciproco, e si avviò un rapporto che ebbe poi tappe interessanti e particolari in seguito».
Si può parlare di amicizia?
«Diciamo di schietta cordialità  e simpatia. Tanto che ci ritrovammo in diverse occasioni pubbliche a cui accettammo volentieri di partecipare insieme – dal dibattito su un libro di Valerio Castronovo a una significativa trasmissione tv condotta da Enzo Biagi – ma anche in ripetuti incontri privati. Ricordo inviti a cena a casa sua, a Roma e talvolta a Torino, anche con ospiti stranieri che voleva mi conoscessero, e che voleva farmi incontrare».
Ospiti americani, con la loro diffidenza nei confronti del Pci?
«Certo, e in particolare Kissinger. Ma non solo. Una volta che ero a Torino come presidente della Camera, ad esempio, mi chiese di raggiungerlo per una colazione con Margaret Thatcher. Lei non era più Primo Ministro, ma in compenso si dimostrò fortemente interessata alle vicende politiche italiane, fece un sacco di domande e diede i suoi pareri con forza, come quello appassionato e categorico a favore dell’introduzione della legge maggioritaria in Italia, che poi passò sotto il nome di Mattarellum. L’Avvocato assisteva con molta curiosità  a questo scambio».
Con lei parlava prevalentemente di politica estera?
«Anche di fatti e di persone, d’Italia, e del Sud. Capitò che ricordassimo un grande avvocato di estrazione lucana (come alcuni dei maggiori meridionalisti), l’avvocato Ianfolla, intimo amico di mio padre, che era perito nel bombardamento di Potenza. Agnelli non era un uomo dogmatico, né chiuso nel suo ruolo, semmai il contrario. Aveva una varietà  di interessi e di orizzonti abbastanza rara. E soprattutto, voglio ribadirlo, a me è sempre sembrato un uomo assolutamente libero, mai frenato da vincoli o pregiudizi sulle appartenenze partitiche. Soprattutto, al di là  dei partiti, degli schieramenti e dei ruoli di ciascuno, aveva un interesse autentico per le persone, per la conoscenza diretta delle persone».
Non crede che abbia anche avuto un ruolo del tutto informale di “garante” dell’Italia davanti all’amministrazione americana?
«Diciamo che aveva un rapporto straordinario con gli Usa, di conoscenza e di intimità , e lo ha usato a favore dell’Italia in più occasioni. È stato per gli americani che contano il volto dell’Italia, di un’Italia moderna, non provinciale. E lavorava per la piena intesa tra i due Paesi. Se ne parlò – a cinque anni dalla sua morte e in sua memoria – a una conferenza “Italia-Europa-Usa” nel luglio 2008 a Villa Madama. Relatori fummo io ed Henry Kissinger, che avevo conosciuto ormai vent’anni prima a Roma in Finmeccanica. Capii che avevano un rapporto stretto e autentico, fatto di mille fili. Tra cui non era certo secondario il calcio, di cui erano appassionatissimi tutti e due».
Si può dire che Agnelli era un po’ un ambasciatore ombra verso gli Stati Uniti? Ha mai pensato di usare la sua influenza negli anni del Pci?
«Mi interessava solo la libertà  delle nostre conversazioni, che non avevano secondi fini. Negli Stati Uniti, certo, l’Avvocato era qualcosa di più di un ambasciatore dell’Italia. Lo vedevo in quegli anni come un uomo che si muoveva di continuo tra le due sponde dell’Atlantico, legatissimo all’America e appassionato dell’Italia, che amava soprattutto nei suoi aspetti più luminosi e creativi».
Rischiò anche di diventare ambasciatore vero, quando dopo l’avanzata del Pci nel 1976-’77 diede a La Malfa la disponibilità  ad andare come rappresentante del nostro Paese a Washington, per rassicurare gli americani sulla democrazia italiana. Ebbe qualche segnale del genere in quegli anni?
«Non conosco i dettagli, so per certo che aveva rapporti diretti con l’establishment degli Stati Uniti. E in quel periodo le domande sul Pci erano continue, alcune anche ingenue e curiose. In un altro mio viaggio negli Usa incontrai l’editore del Washington Post, il giornale dello scandalo Watergate, la Katharine Graham, che già  era venuta in visita da me alle Botteghe Oscure dopo la vittoria elettorale del Pci nel 1976. Mi ricevette con un appunto e tre cifre percentuali: “Nel 1972 alle precedenti elezioni il Pci aveva avuto il 27 per cento, adesso siete saliti al 34. Alle prossime dunque arriverete al 41 per cento”. Le dissi che questa progressione automatica non era così sicura, la dovetti insomma un po’ frenare… Diciamo che il mondo politico italiano in America interessava poco, la “giraffa” Pci era studiata con curiosità , anche perché considerata come una possibile spina nel fianco dell’Urss. E io spiegavo, ripetevo che eravamo davvero uno strano animale, comunisti ma aperti al ruolo del mercato, propensi ad esempio a puntare più sulle partecipazioni statali che sulle nazionalizzazioni. Immagino che le stesse domande su di noi gli americani le abbiano fatte in quegli anni mille volte anche ad Agnelli».
Vi conosceva bene?
«Direi proprio di sì. Si circondava anche di gente che rispondeva alle curiosità  che nutriva verso mondi non suoi. Come Renato Ruggiero, ad esempio, l’ex ambasciatore per cui costruì un ruolo in Fiat, e che talvolta incontrammo insieme».
Quando Scalfaro diede l’incarico di formare il governo a Ciampi, disse ad Agnelli: si prepari, la prossima volta credo che avrò bisogno di lei. Agnelli rispose: “Spero proprio di no, anche perché dopo il Governatore c’è solo un generale, o un cardinale”. Ma tornato a Torino cominciò a pensarci su e concluse: non accadrà  mai. Ma se accadesse, la prima persona che chiamerei come ministro è Napolitano. Lei lo ha saputo?
«Mi è stato detto. Sa, erano anni in cui valeva la stima, tra persone anche diverse e lontane».

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