Montale e Clizia, l’infelicità di dirsi addio
Anticipazioni da un volume di prossima uscita per Archinto Due lettere inedite di Contini a Irma «Ma ora squilla il telefono e una voce | che stento a riconoscere dice ciao. | Volevo dirtelo, aggiunge, dopo trent’anni. | Il mio nome è Giovanna, fui l’amica di Clizia | e m’imbarcai con lei. Non aggiungo altro | né dico arrivederci che sarebbe ridicolo | per tutti e due». Si chiude così «Interno/Esterno», una delle poesie «interamente inedite» coagulatesi in Altri versi, raccolta terminale dell’opera in versi di Montale che Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, licenziando l’edizione critica, presentarono come «novità clamante» e «non inferiore alle sue precedenti». Questo testo appartiene a un gruppetto di poesie nel segno di Clizia scritte quasi mezzo secolo dopo il lustro (1933-1938) che li vide protagonisti di un’intensa storia d’amore, poeticamente feconda, certo, ma umanamente irrisolta.
Tra i migliori dell’ultimo Montale, questi versi cliziani, decisamente diversi dall’ermetismo dei Mottetti (ricordano piuttosto gli xenon di Satura a ricordo della moglie), non ne sono meno importanti, anzi: proprio perché più espliciti ci avvicinano alla quotidianità del rapporto tra il poeta e la sua musa americana, Irma Brandeis (1905-1990).
L’opera creativa di Montale – per sua stessa ammissione («Io parto sempre dal vero, non so inventare nulla»; «sono un poeta che ha scritto un’autobiografia poetica») – è strettamente legata alla sua esperienza personale e quindi al gradiente poetico del ricordo. «Interno/Esterno» è un esempio del processo compositivo montaliano che Maria Antonietta Grignani ha definito come «fissaggio mnestico». In questa poesia, una «imaginazione d’Amore» secondo Paolo De Caro, la «catena» del ricordo è avviata dall’assenza-presenza di due figure femminili in una serie di spazialità sospese, appunto, tra interno ed esterno: da Milano a Milano passando per Firenze, Genova e New York.
Il primo tempo è interno: Milano (l’appartamento del poeta in Via Bigli 15) ma anche Firenze (il «Gabinetto Vieusseux», l’abitazione di Brandeis in Costa San Giorgio, la «Pensione Annalena»). Nei versi d’apertura Montale ricorda infatti i «deliranti abissi | di Meister Eckart o simili» che aveva percorso insieme a Clizia attraverso la lettura. I ricordi del passato «si fissano» e «fuoriescono» in una dinamica sembra razionale, quasi di causa-effetto, emotivamente neutra («È per ciò che ti vedo»; «Non aggiungo altro | né dico arrivederci perché sarebbe ridicolo | per tutti e due»).
Il secondo tempo è esterno: Firenze e Genova. Montale ri-vede Clizia e ri-scrive di lei. Siamo di fronte a una doppia epifania. Nella prima immagine, infatti, è lontana: si sta imbarcando per tornare negli Stati Uniti e si volge indietro, silenziosamente, per salutarlo. Il tema stilnovistico del saluto è ripreso, in sonoro questa volta, nel «dice ciao» pronunciato dalla persona che telefona al poeta presentandosi a lui come l’amica di Clizia. Nella seconda immagine, invece, è vicina: legge con lui, agendo anche da colta guida intellettuale oltre che da salvifica musa poetica.
Questa opposizione – tristemente simbolica delle difficoltà che minarono la relazione tra Irma ed Eugenio – è annullata nel locus poeticus del testo. Agente di riconciliazione è sempre il ricordo: in quanto «pezzo d’eternità » si colloca «fuordaltempo» e fuori dallo spazio. In poesia dove tutte le coordinate sono liminali e fluide – una condizione tipicamente montaliana – la verità «vagola» sospesa tra assenza e presenza, tra realtà e visione, tra temporalità ed eternità : tra un al-di-qua e un al-di-là di cui l’oceano e l’«odore d’etere non di clinica» sono potenti correlativi soggettivi sia sul piano fisico che su quello metafisico.
Il terzo tempo si apre con la congiunzione avversativa «Ma»: dopo il ricordo del passato si torna alla realtà del presente. L’avverbio temporale «ora» ha anche valenza spaziale di «qui»: siamo quindi di nuovo nell’appartamento milanese del poeta e nel 1976.
La figura di Clizia è ancora al centro dei pensieri del poeta: in questo caso, però, indirettamente, mediata dal quasi irriconoscibile («una voce | che stento a riconoscere») ma autorevole surrogato di una cara amica di lei. La voce dall’altra parte della cornetta, dopo il più semplice dei saluti («dice ciao»), si presenta solo per nome («Il mio nome è Giovanna»). Un nome che nella memoria del poeta dovrebbe immediatamente evocarne un altro: quello di Clizia (torna alla mente una poesia delle Occasioni, «Buffalo»: «- e il nome agì»). Ma Montale, ottantenne, sembra avere bisogno di qualche indizio in più. Ecco allora che Giovanna – Giovanna Calastri (1913-1974), figlia di Alma Landini Calastri, moglie dello scultore Olindo Calastri e proprietaria della «Pensione Annalena» dove Brandeis prese alloggio durante i soggiorni fiorentini – chiarisce la propria identità («Volevo dirtelo») aggiungendo di essere stata amica di Clizia e di averla seguita negli Stati Uniti («fui l’amica di Clizia | e m’imbarcai con lei»).
Questo essenziale identikit dice tutto ciò che c’è da dire attraverso due semplici sottolineature. La prima è l’uso dell’articolo determinativo. Montale opera un’allegoria in chiasmo: Giovanni il Battista preparò la via a Cristo, Giovanna seguì la critstofora Clizia («typus Christi gerens e teologico-teosofica portatrice d’Amore» ha detto Paolo De Caro). La seconda è l’informazione scelta da Giovanna per presentarsi: seguì Irma oltremare. E in questo particolare si gioca il senso di contrapasso affidato a «Interno/Esterno» (in un’altra poesia cliziana di Altri versi, «Credo», si legge: «Forse per qualche sgarbo nella legge | del contrappasso | era possibile che uno sternuto in Via Varchi 6 Firenze | potesse giungere fino a Bard College, N.Y.»). Montale confessa qui, tra le righe, il suo doppio peccato, agendo anche da heautontimorumenos: lui non seguì Clizia negli Stati Uniti e quando negli Stati Uniti andò, per altre ragioni, non la incontrò e nemmeno le telefonò.
Giovanna invece era già comparsa, anonimamente, in un altro scritto in cui Montale racconta il suo unico viaggio negli Stati Uniti in occasione dell’inaugurazione del volo diretto Roma-New York nel luglio del 1950. In questo reportage (Dove sono le donne importanti? «Corriere d’Informazione») Montale scrive: «A breve distanza da Washington Bridge, dove comincia il bush (un civilissimo bush), abita un’italiana di Firenze che è andata in America a diciannove anni ed ha sposato un Americano. Ha quasi dimenticato la nostra lingua e sembra perfettamente felice; ma parlando con lei ho avuto l’impressione che il suo orizzonte si sia impoverito. Ha perduto le sue radici senza acquistarne veramente delle nuove.»
Pochi giorni prima, in un altro reportage (Andati e venuti in novanta, «Corriere della Sera»), Montale aveva dato conto del tour de force a cui era stata sottoposta la «brigata di circa trenta persone» invitate a salire a bordo del Douglas DC6 Lady per il volo da Roma a New York. «Delle novanta ore della missione inaugurale», scrive Montale, «quaranta erano state di volo e quarantotto di “festeggiamenti americani” con una serie infinita di cocktail parties nella città dei grattacieli».
Ma tra un cocktail e l’altro Montale trova il tempo di telefonare all’«amica di Clizia» (che in «Interno/Esterno», quindi, contraccambia la cortesia) e di incontrarla. E Clizia?
Jean Cook, amica «di lunga fedeltà » di Irma Brandeis, ricorda così quella mancata occasione di rivedere Clizia: «Montale spedì un biglietto a Irma in cui le diceva che era stato a N.Y., che aveva preso la guida del telefono, individuato quello che sapeva essere il suo indirizzo, segnato il numero di telefono, preso il telefono, fatto il numero, e poi messo giù prima che suonasse. Non diede nessuna spiegazione del suo comportamento, descrisse solo quello che aveva fatto».
In una lettera dell’agosto 1979, Brandeis scrive: «Posseggo ogni biglietto e ogni lettera scrittimi da E.M. tra il 1933, anno in cui ci conoscemmo, e il 1939, quando la guerra rese impossibile la prosecuzione di una comunicazione che del resto era ormai diventata inutile». Ma di questo biglietto non c’è traccia: né tra i documenti epistolari donati al «Vieusseux» e pubblicati nel volume Lettere a Clizia (2006), né tra le carte tuttora conservate da Cook.
È invece venuto alla luce un altro biglietto, legato – come ha ricostruito Rebay (e prima di lui, un po’ confusamente, il poeta americano James Merrill) – alla pubblicazione dell’edizione critica dell’opera in versi di Montale, di cui Brandeis ricevette due copie. Queste le parole del vecchio Montale, quasi illeggibili: «Irma, sei ancora la mia dea, | la mia divinità . Rendo omaggio prima di tutto a te, | per me. Perdona come scrivo. | Quando, come ci riincontreremo? | Ti abbraccia il tuo | Montale». È Clizia stessa a datarlo, giorno più giorno meno: 15 giugno 1981.
Questo biglietto li riavvicina e li riporta all’ultimo, affrettato saluto nella tarda estate del 1938. In data 25 agosto, Irma scrive nel suo diario: «Ancora l’Hotel Bristol, ancora Sottoripa e Carlotta. Ma? Il mio cuore è diverso, meno selvaggio, plus sage. Siamo arrivati al treno – appena in tempo – e prima che potessimo scambiarci uno sguardo il treno è partito. Ho dovuto cominciare il viaggio restando (in piedi) nel corridoio affollato con gran parte dei bagagli addosso e con la costante preoccupazione di trovare un posto a sedere».
Anche Montale racconta questo convulso congedo e lo fa a modo suo nel mottetto «Addii, fischi nel buio, cenni, tosse» (1939), che chiude con una domanda: «-Presti anche tu alla fioca | litania del tuo rapido quest’orrida | e fedele cadenza di carioca?-». Commentando questi versi, Giuseppe De Robertis parla di «infelicità del dirsi addio». Un addio che tra il 1933 e il 1938, estate dopo estate, si era ripetuto, e che Montale aveva forse sempre sentito come definitivo. Un presentimento che trapela da due mottetti: «Lo sai: debbo riperderti e non posso» (1934) – «Ritorni e partenze, vicissitudini di ogni storia d’amore» ha commentato Dante Isella – e soprattutto «La speranza di pure rivederti» (1937): «La speranza di pure rivederti | m’abbandonava; | e mi chiesi se questo che mi chiude | ogni senso di te, schermo d’immagini, | ha i segni della morte o dal passato | è in esso, ma distorto e fatto labile, | un tuo barbaglio: | (a Modena, tra i portici, | un servo gallonato trascinava | due sciacalli al guinzaglio)».
È significativo che Montale avesse pensato di aprire la silloge dei mottetti (il dattiloscritto presenta due indicazioni manoscritte, entrambe cassate: la data, «1937», e l’indicazione seriale, «1º») con questi versi che sono, di fatto, di chiusura: il poeta sembra infatti avere perso la speranza di rivedere Brandeis.
L’insolita vista di due sciacalli al guinzaglio trascinati da un servo in livrea tra i portici di una città di provincia inizia però ad innescare – come «emblema», «citazione occulta», «senhal», «allucinazione» o «segni premonitori» non è importante – il «ricordo intimo e lontano» di Clizia, e a riavvicinarla a lui.
Nel tempo del ricordo e nello spazio della poesia – in questi versi come in quelli di «Interno/Esterno» tanti anni dopo – Montale può sempre rievocare e rivedere Clizia. In un autocommento affidato al «Corriere della Sera» (Due sciacalli al guinzaglio, 16 febbraio I950), è il poeta stesso (con la mediazione di «Mirco») a spiegare che «Clizia amava gli animali buffi» e «si sarebbe divertita» a vedere quei due sciacalli. «E da quel giorno», continua Montale-Mirco «non lesse il nome Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli». E ancora: «Fatti consimili si ripeterono spesso (…). E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo». In là negli anni, vedovo, fragile, Montale decide che è arrivato il momento di rivedere la sua musa, di dirsi ancora addio, di persona. Dall’altra parte dell’oceano, Brandeis non ha mai smesso di pensare a lui.
In margine allo studio dei diari e degli scritti di Brandeis, l’ispezione di un faldone di pagine sciolte ha portato alla luce nuovi e interessanti documenti: tre lettere inedite – le prime due, dattiloscritte, sono di Contini; la terza, manoscritta, è firmata «Cesare» – nonché diverse prove di traduzione di poesie di Montale.
La terza lettera, datata 4 maggio 1981, unisce ancora Milano a New York nel ricordo di Firenze, ed è una commovente testimonianza di quanto Brandeis avesse sempre sperato di rivedere Montale e di quanto vicini a rivedersi, finalmente, fossero arrivati. Una telefonata fa però saltare tutto. In data 13 settembre 1981 Clizia annota nel suo diario: «Telefonata da Glauco C(AMBON). Montale è morto».
Anni dopo, anche lei vicina alla fine, quando le viene chiesto perché, dopo tutto quello che era successo, avesse comunque cercato di rivedere Montale, Brandeis rispose che le era sembrava «insensato» non vedersi per un’ultima volta. Sono tante le testimonianze, tra le sue carte come tra i ricordi degli amici più stretti, che Brandeis non aveva mai veramente accettato che qualcosa avesse potuto separarla da Montale. Eppure fu lei a mettere la parola fine alla loro storia.
La conferma si trova tra in uno dei fogli sparsi che ho tra le mani. Sul recto di un pagina un po’ malconcia c’è la traduzione dattiloscritta di «Lettera levantina», con correzioni manoscritte e, sul margine destro in alto, il numero «773»: è la pagina in cui si trova l’originale di Montale, nell’Opera in versi, in cui è pubblicata per la prima volta. Una poesia letta e subito tradotta, come in tante altre occasioni. Sul verso, due testi, uno manoscritto e uno dattiloscritto. Nel primo, in una manciata frasi e dietro a nomi fittizi, Brandeis spiega ad altri il micidiale triangolo in cui si trovò coinvolta: lei, lui e l’altra. Nel secondo, invece, spiega a se stessa quanto successo. E lo fa scegliendo versi del Paradiso («Tutti quei morsi | che possono far lo cor volgere a Dio») che aveva acutamente commentato nel suo libro sulla Commedia (The Ladder of Vision. A Study of Images in Dante’s Comedy). Un libro che Montale – nella sua celebre relazione finale al Congresso per il VII centenario della nascita del sommo poeta – salutò, citando apertamente il nome dell’autrice, come «quanto di più suggestivo» avesse letto «sull’argomento della scala che porta a Dio». Era il 1965 e della «I.B.» dedicataria delle Occasioni non si sapeva ancora niente.
«Tout le reste», aveva ragione Verlaine, «est littérature». Anticipiamo in questa pagina la rielaborazione di materiali che faranno parte di una delle sezioni del libro «La speranza di pure rivederti», che uscirà per le edizioni Archinto nel primo semestre del 2013. Marco Sonzogni, che firma il volume e da alcuni anni insegna Lingua e Letteratura Italiana presso la School of Languages and Cultures della Victoria University a Wellington, ha inoltre curato, insieme a George Talbot, una selezione di scritti di Irma Brandeis intitolata «MacGregor’s Island and other Stories», di imminente pubblicazione per Troubadour Publishing. Ancora Sonzogni, sul numero 32 (2012) della rivista «The Italianist», ha proposto – sotto il titolo «Il critico tra il poeta e la musa» – due lettere inedite di Gianfranco Contini a «Clizia»: «Per me, che da oltre cinquant’anni fa sono stato intimo, almeno qui a Firenze, di Eusebio, e che ho avuto il privilegio, ora, di conoscere e, se permette, di ammirare Lei, la Sua lettera è stato un vero évènement» scrive in una delle due, datata 14 aprile 1985, il grande critico, che si firma «Gianfranco (Contini) (da Eusebio chiamato Trabucco)». Marco Sonzogni
«Ma ora squilla il telefono e una voce | che stento a riconoscere dice ciao. | Volevo dirtelo, aggiunge, dopo trent’anni. | Il mio nome è Giovanna, fui l’amica di Clizia | e m’imbarcai con lei. Non aggiungo altro | né dico arrivederci che sarebbe ridicolo | per tutti e due». Si chiude così «Interno/Esterno», una delle poesie «interamente inedite» coagulatesi in Altri versi, raccolta terminale dell’opera in versi di Montale che Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, licenziando l’edizione critica, presentarono come «novità clamante» e «non inferiore alle sue precedenti». Questo testo appartiene a un gruppetto di poesie nel segno di Clizia scritte quasi mezzo secolo dopo il lustro (1933-1938) che li vide protagonisti di un’intensa storia d’amore, poeticamente feconda, certo, ma umanamente irrisolta.
Tra i migliori dell’ultimo Montale, questi versi cliziani, decisamente diversi dall’ermetismo dei Mottetti (ricordano piuttosto gli xenon di Satura a ricordo della moglie), non ne sono meno importanti, anzi: proprio perché più espliciti ci avvicinano alla quotidianità del rapporto tra il poeta e la sua musa americana, Irma Brandeis (1905-1990).
L’opera creativa di Montale – per sua stessa ammissione («Io parto sempre dal vero, non so inventare nulla»; «sono un poeta che ha scritto un’autobiografia poetica») – è strettamente legata alla sua esperienza personale e quindi al gradiente poetico del ricordo. «Interno/Esterno» è un esempio del processo compositivo montaliano che Maria Antonietta Grignani ha definito come «fissaggio mnestico». In questa poesia, una «imaginazione d’Amore» secondo Paolo De Caro, la «catena» del ricordo è avviata dall’assenza-presenza di due figure femminili in una serie di spazialità sospese, appunto, tra interno ed esterno: da Milano a Milano passando per Firenze, Genova e New York.
Il primo tempo è interno: Milano (l’appartamento del poeta in Via Bigli 15) ma anche Firenze (il «Gabinetto Vieusseux», l’abitazione di Brandeis in Costa San Giorgio, la «Pensione Annalena»). Nei versi d’apertura Montale ricorda infatti i «deliranti abissi | di Meister Eckart o simili» che aveva percorso insieme a Clizia attraverso la lettura. I ricordi del passato «si fissano» e «fuoriescono» in una dinamica sembra razionale, quasi di causa-effetto, emotivamente neutra («È per ciò che ti vedo»; «Non aggiungo altro | né dico arrivederci perché sarebbe ridicolo | per tutti e due»).
Il secondo tempo è esterno: Firenze e Genova. Montale ri-vede Clizia e ri-scrive di lei. Siamo di fronte a una doppia epifania. Nella prima immagine, infatti, è lontana: si sta imbarcando per tornare negli Stati Uniti e si volge indietro, silenziosamente, per salutarlo. Il tema stilnovistico del saluto è ripreso, in sonoro questa volta, nel «dice ciao» pronunciato dalla persona che telefona al poeta presentandosi a lui come l’amica di Clizia. Nella seconda immagine, invece, è vicina: legge con lui, agendo anche da colta guida intellettuale oltre che da salvifica musa poetica.
Questa opposizione – tristemente simbolica delle difficoltà che minarono la relazione tra Irma ed Eugenio – è annullata nel locus poeticus del testo. Agente di riconciliazione è sempre il ricordo: in quanto «pezzo d’eternità » si colloca «fuordaltempo» e fuori dallo spazio. In poesia dove tutte le coordinate sono liminali e fluide – una condizione tipicamente montaliana – la verità «vagola» sospesa tra assenza e presenza, tra realtà e visione, tra temporalità ed eternità : tra un al-di-qua e un al-di-là di cui l’oceano e l’«odore d’etere non di clinica» sono potenti correlativi soggettivi sia sul piano fisico che su quello metafisico.
Il terzo tempo si apre con la congiunzione avversativa «Ma»: dopo il ricordo del passato si torna alla realtà del presente. L’avverbio temporale «ora» ha anche valenza spaziale di «qui»: siamo quindi di nuovo nell’appartamento milanese del poeta e nel 1976.
La figura di Clizia è ancora al centro dei pensieri del poeta: in questo caso, però, indirettamente, mediata dal quasi irriconoscibile («una voce | che stento a riconoscere») ma autorevole surrogato di una cara amica di lei. La voce dall’altra parte della cornetta, dopo il più semplice dei saluti («dice ciao»), si presenta solo per nome («Il mio nome è Giovanna»). Un nome che nella memoria del poeta dovrebbe immediatamente evocarne un altro: quello di Clizia (torna alla mente una poesia delle Occasioni, «Buffalo»: «- e il nome agì»). Ma Montale, ottantenne, sembra avere bisogno di qualche indizio in più. Ecco allora che Giovanna – Giovanna Calastri (1913-1974), figlia di Alma Landini Calastri, moglie dello scultore Olindo Calastri e proprietaria della «Pensione Annalena» dove Brandeis prese alloggio durante i soggiorni fiorentini – chiarisce la propria identità («Volevo dirtelo») aggiungendo di essere stata amica di Clizia e di averla seguita negli Stati Uniti («fui l’amica di Clizia | e m’imbarcai con lei»).
Questo essenziale identikit dice tutto ciò che c’è da dire attraverso due semplici sottolineature. La prima è l’uso dell’articolo determinativo. Montale opera un’allegoria in chiasmo: Giovanni il Battista preparò la via a Cristo, Giovanna seguì la critstofora Clizia («typus Christi gerens e teologico-teosofica portatrice d’Amore» ha detto Paolo De Caro). La seconda è l’informazione scelta da Giovanna per presentarsi: seguì Irma oltremare. E in questo particolare si gioca il senso di contrapasso affidato a «Interno/Esterno» (in un’altra poesia cliziana di Altri versi, «Credo», si legge: «Forse per qualche sgarbo nella legge | del contrappasso | era possibile che uno sternuto in Via Varchi 6 Firenze | potesse giungere fino a Bard College, N.Y.»). Montale confessa qui, tra le righe, il suo doppio peccato, agendo anche da heautontimorumenos: lui non seguì Clizia negli Stati Uniti e quando negli Stati Uniti andò, per altre ragioni, non la incontrò e nemmeno le telefonò.
Giovanna invece era già comparsa, anonimamente, in un altro scritto in cui Montale racconta il suo unico viaggio negli Stati Uniti in occasione dell’inaugurazione del volo diretto Roma-New York nel luglio del 1950. In questo reportage (Dove sono le donne importanti? «Corriere d’Informazione») Montale scrive: «A breve distanza da Washington Bridge, dove comincia il bush (un civilissimo bush), abita un’italiana di Firenze che è andata in America a diciannove anni ed ha sposato un Americano. Ha quasi dimenticato la nostra lingua e sembra perfettamente felice; ma parlando con lei ho avuto l’impressione che il suo orizzonte si sia impoverito. Ha perduto le sue radici senza acquistarne veramente delle nuove.»
Pochi giorni prima, in un altro reportage (Andati e venuti in novanta, «Corriere della Sera»), Montale aveva dato conto del tour de force a cui era stata sottoposta la «brigata di circa trenta persone» invitate a salire a bordo del Douglas DC6 Lady per il volo da Roma a New York. «Delle novanta ore della missione inaugurale», scrive Montale, «quaranta erano state di volo e quarantotto di “festeggiamenti americani” con una serie infinita di cocktail parties nella città dei grattacieli».
Ma tra un cocktail e l’altro Montale trova il tempo di telefonare all’«amica di Clizia» (che in «Interno/Esterno», quindi, contraccambia la cortesia) e di incontrarla. E Clizia?
Jean Cook, amica «di lunga fedeltà » di Irma Brandeis, ricorda così quella mancata occasione di rivedere Clizia: «Montale spedì un biglietto a Irma in cui le diceva che era stato a N.Y., che aveva preso la guida del telefono, individuato quello che sapeva essere il suo indirizzo, segnato il numero di telefono, preso il telefono, fatto il numero, e poi messo giù prima che suonasse. Non diede nessuna spiegazione del suo comportamento, descrisse solo quello che aveva fatto».
In una lettera dell’agosto 1979, Brandeis scrive: «Posseggo ogni biglietto e ogni lettera scrittimi da E.M. tra il 1933, anno in cui ci conoscemmo, e il 1939, quando la guerra rese impossibile la prosecuzione di una comunicazione che del resto era ormai diventata inutile». Ma di questo biglietto non c’è traccia: né tra i documenti epistolari donati al «Vieusseux» e pubblicati nel volume Lettere a Clizia (2006), né tra le carte tuttora conservate da Cook.
È invece venuto alla luce un altro biglietto, legato – come ha ricostruito Rebay (e prima di lui, un po’ confusamente, il poeta americano James Merrill) – alla pubblicazione dell’edizione critica dell’opera in versi di Montale, di cui Brandeis ricevette due copie. Queste le parole del vecchio Montale, quasi illeggibili: «Irma, sei ancora la mia dea, | la mia divinità . Rendo omaggio prima di tutto a te, | per me. Perdona come scrivo. | Quando, come ci riincontreremo? | Ti abbraccia il tuo | Montale». È Clizia stessa a datarlo, giorno più giorno meno: 15 giugno 1981.
Questo biglietto li riavvicina e li riporta all’ultimo, affrettato saluto nella tarda estate del 1938. In data 25 agosto, Irma scrive nel suo diario: «Ancora l’Hotel Bristol, ancora Sottoripa e Carlotta. Ma? Il mio cuore è diverso, meno selvaggio, plus sage. Siamo arrivati al treno – appena in tempo – e prima che potessimo scambiarci uno sguardo il treno è partito. Ho dovuto cominciare il viaggio restando (in piedi) nel corridoio affollato con gran parte dei bagagli addosso e con la costante preoccupazione di trovare un posto a sedere».
Anche Montale racconta questo convulso congedo e lo fa a modo suo nel mottetto «Addii, fischi nel buio, cenni, tosse» (1939), che chiude con una domanda: «-Presti anche tu alla fioca | litania del tuo rapido quest’orrida | e fedele cadenza di carioca?-». Commentando questi versi, Giuseppe De Robertis parla di «infelicità del dirsi addio». Un addio che tra il 1933 e il 1938, estate dopo estate, si era ripetuto, e che Montale aveva forse sempre sentito come definitivo. Un presentimento che trapela da due mottetti: «Lo sai: debbo riperderti e non posso» (1934) – «Ritorni e partenze, vicissitudini di ogni storia d’amore» ha commentato Dante Isella – e soprattutto «La speranza di pure rivederti» (1937): «La speranza di pure rivederti | m’abbandonava; | e mi chiesi se questo che mi chiude | ogni senso di te, schermo d’immagini, | ha i segni della morte o dal passato | è in esso, ma distorto e fatto labile, | un tuo barbaglio: | (a Modena, tra i portici, | un servo gallonato trascinava | due sciacalli al guinzaglio)».
È significativo che Montale avesse pensato di aprire la silloge dei mottetti (il dattiloscritto presenta due indicazioni manoscritte, entrambe cassate: la data, «1937», e l’indicazione seriale, «1º») con questi versi che sono, di fatto, di chiusura: il poeta sembra infatti avere perso la speranza di rivedere Brandeis.
L’insolita vista di due sciacalli al guinzaglio trascinati da un servo in livrea tra i portici di una città di provincia inizia però ad innescare – come «emblema», «citazione occulta», «senhal», «allucinazione» o «segni premonitori» non è importante – il «ricordo intimo e lontano» di Clizia, e a riavvicinarla a lui.
Nel tempo del ricordo e nello spazio della poesia – in questi versi come in quelli di «Interno/Esterno» tanti anni dopo – Montale può sempre rievocare e rivedere Clizia. In un autocommento affidato al «Corriere della Sera» (Due sciacalli al guinzaglio, 16 febbraio I950), è il poeta stesso (con la mediazione di «Mirco») a spiegare che «Clizia amava gli animali buffi» e «si sarebbe divertita» a vedere quei due sciacalli. «E da quel giorno», continua Montale-Mirco «non lesse il nome Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli». E ancora: «Fatti consimili si ripeterono spesso (…). E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo». In là negli anni, vedovo, fragile, Montale decide che è arrivato il momento di rivedere la sua musa, di dirsi ancora addio, di persona. Dall’altra parte dell’oceano, Brandeis non ha mai smesso di pensare a lui.
In margine allo studio dei diari e degli scritti di Brandeis, l’ispezione di un faldone di pagine sciolte ha portato alla luce nuovi e interessanti documenti: tre lettere inedite – le prime due, dattiloscritte, sono di Contini; la terza, manoscritta, è firmata «Cesare» – nonché diverse prove di traduzione di poesie di Montale.
La terza lettera, datata 4 maggio 1981, unisce ancora Milano a New York nel ricordo di Firenze, ed è una commovente testimonianza di quanto Brandeis avesse sempre sperato di rivedere Montale e di quanto vicini a rivedersi, finalmente, fossero arrivati. Una telefonata fa però saltare tutto. In data 13 settembre 1981 Clizia annota nel suo diario: «Telefonata da Glauco C(AMBON). Montale è morto».
Anni dopo, anche lei vicina alla fine, quando le viene chiesto perché, dopo tutto quello che era successo, avesse comunque cercato di rivedere Montale, Brandeis rispose che le era sembrava «insensato» non vedersi per un’ultima volta. Sono tante le testimonianze, tra le sue carte come tra i ricordi degli amici più stretti, che Brandeis non aveva mai veramente accettato che qualcosa avesse potuto separarla da Montale. Eppure fu lei a mettere la parola fine alla loro storia.
La conferma si trova tra in uno dei fogli sparsi che ho tra le mani. Sul recto di un pagina un po’ malconcia c’è la traduzione dattiloscritta di «Lettera levantina», con correzioni manoscritte e, sul margine destro in alto, il numero «773»: è la pagina in cui si trova l’originale di Montale, nell’Opera in versi, in cui è pubblicata per la prima volta. Una poesia letta e subito tradotta, come in tante altre occasioni. Sul verso, due testi, uno manoscritto e uno dattiloscritto. Nel primo, in una manciata frasi e dietro a nomi fittizi, Brandeis spiega ad altri il micidiale triangolo in cui si trovò coinvolta: lei, lui e l’altra. Nel secondo, invece, spiega a se stessa quanto successo. E lo fa scegliendo versi del Paradiso («Tutti quei morsi | che possono far lo cor volgere a Dio») che aveva acutamente commentato nel suo libro sulla Commedia (The Ladder of Vision. A Study of Images in Dante’s Comedy). Un libro che Montale – nella sua celebre relazione finale al Congresso per il VII centenario della nascita del sommo poeta – salutò, citando apertamente il nome dell’autrice, come «quanto di più suggestivo» avesse letto «sull’argomento della scala che porta a Dio». Era il 1965 e della «I.B.» dedicataria delle Occasioni non si sapeva ancora niente.
«Tout le reste», aveva ragione Verlaine, «est littérature».
La speranza di pure riverderti (1937)
La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
o un tuo barbaglio;
(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
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Manhattan da 70 anni la capitale dello spionaggio Lo rivelano i libri di due consulenti di Fbi e Cia Il rifugio preferito è la folla, come quella dei viaggiatori sempre in ritardo che si muovono nelle stazioni Le sue vie sono anche il luna park nel quale gli uomini inviati a corrodere l’America rischiano di innamorarsene
Basaglia. Lettere dal manicomio
I documenti inediti raccontano la più pazzesca delle rivoluzioni: quella di un medico “interessato più al malato che alla malattia”