by Sergio Segio | 2 Gennaio 2013 8:58
Uno di quei posti che quintuplica gli abitanti in estate e mette tristezza d’inverno, quando la passeggiata è deserta e le case sfitte hanno luci spente e persiane abbassate. Follonica è un luogo che sembra non avere un passato, né averne bisogno. La verità è che per scorgere il passato di questa città occorre dare le spalle al mare e puntare lo sguardo verso l’entroterra, sulle colline metallifere di Scarlino, Montieri, Roccastrada, Gavorrano; oppure volgere la testa a nord, in direzione delle ciminiere e dei forni fusori di Piombino. Bisogna allontanarsi dalla marina per incontrare concrezioni di memoria viva, spingersi dentro il cuore della città , raggiungere le mura dell’ex Ilva, un’antica acciaieria costruita nell’ottocento. à‰ con la chiusura dell’Ilva, nel 1960, che Follonica scorda di essere stata una città fabbrica e si scopre città vacanza. Non riesce però a spegnere del tutto gli echi di un’origine operaia che risuonano nelle architetture e nella toponomastica non ufficiale. Basti pensare alla banda giovanile degli anni ottanta, i «Bronx» del Cassarello, un quartiere dormitorio nato per ospitare i muratori e gli operai venuti dal sud Italia, tutti definiti «napoletani».
à‰ questa la Follonica proletaria e povera che Alberto Prunetti racconta in Amianto (Agenzia X, pp. 160, euro 13). Un libro potente che mescola inchiesta e autobiografia, fotografie di famiglia e materiali d’archivio, reportage e romanzo legando ogni elemento in una narrazione che va dritta come un treno sino all’ultima pagina. La storia principale è quella di Renato Prunetti, il padre di Alberto, morto di un carcinoma polmonare dopo aver lavorato 35 anni a contatto con metalli pesanti di ogni tipo. La storia di Renato è racchiusa tra due fotografie contenute nel libro. La prima lo ritrae assieme a un gruppo di uomini, tutti portano una giacca nera e un papillon al collo. Al centro del gruppo c’è una ragazza minuta; indossa un vestito bianco che la stacca dalla massa scura degli uomini. à‰ il 1969 e la ragazza si chiama Nada Malanima. Nada ha 15 anni ed è reduce dall’enorme successo che una sua canzone ha avuto a Sanremo. Accanto a lei se ne sta un uomo alto; il sorriso largo e la fossetta sul mento lo fanno somigliare a un attore francese. Il suo sguardo è rivolto verso il fuoricampo a fissare qualcosa che a tutti gli altri sembra sfuggire. Lui è Renato, di anni ne ha 24 e la sera arrotonda facendo il cameriere nel dancing dove la giovane cantante si è appena esibita. La seconda immagine è una fototessera, fissata con un punto di spillatrice a un cartellino di lavoro delle acciaierie di Terni (oggi proprietà della ThyssenKrupp). L’uomo nella foto ha i capelli bianchi, gli occhi ingigantiti da spesse lenti da vista, l’espressione inerme di chi è stato colto dal flash di sorpresa. Alla voce professione si legge «tubista», in stampatello è riportato il nome «Prunetti Renato». È il 1989. Renato ha 44 anni, ma ne dimostra almeno dieci di più. Cos’è accaduto a quest’uomo? Cosa lo ha consumato?
Alberto Prunetti ricostruisce l’intervallo tra queste due immagini, rivelando al lettore come esse contengano assai più della storia di suo padre. C’è il passato di un intero paese in quelle foto, un passato che non passa e che continua a gravare sulle spalle del presente.
La storia di Renato è simile a quella di molti altri. Sposa la sua ragazza, trova casa a Follonica ed entra come operaio nel polo chimico di Scarlino (Montedison). A Scarlino ci resta poco e va a lavorare a Piombino, a produrre acciaio per l’Ilva. Passare la vita a una catena di montaggio lo deprime più di qualsiasi altra cosa e Renato ci mette poco a prendere la qualifica di saldatore-tubista. In cerca di una paga più dignitosa, si spinge a Nord. Trova lavoro a Novara, in una ditta specializzata nell’installazione d’impianti per industrie chimiche e petrolifere. Renato accetta di lavorare come trasfertista e va in giro per l’Italia a saldare tubi, congiungere manicotti, smantellare coibentature. È una vita dura perché si torna a casa di rado, ma c’è una famiglia da mantenere e le trasferte sono a paga maggiorata. Si sposta tra Piombino, Genova, Casale Monferrato, Siracusa, Terni. Quando arriva a Taranto gli sembra di varcare la porta dell’inferno. Se lavori a un passo da una cisterna piena di petrolio, basta un errore, anche minimo, e fai il botto. Renato lo sa e per isolare le scintille è costretto a lavorare sotto un telone resistente alle alte temperature. Un telone d’amianto. Quello che non sa è che una fibra di amianto è 1300 volte più sottile di un capello. Renato salda nel buio surriscaldato del telone, e respira; respira amianto. Si riempie i polmoni di gas micidiali per anni. Si sfonda i timpani a forza di dare colpi di mazzuolo. Gli occhi limati dall’elettrodo incandescente. I denti che cadono per via dell’esposizione ai metalli pesanti. Occhiali, dentiera, apparecchio acustico. Renato non ha ancora quarant’anni ed è già consumato, ferito. Gli viene riconosciuta un’invalidità parziale (con iscrizione nei registri dell’Anmil come invalido del lavoro) che non basta però a tutelarlo dalla svendita dei diritti operai che inizia negli anni Ottanta. Per la prima volta in vita sua finisce in cassaintegrazione. Lunga e con rottami di stipendio in tasca. Accetta un lavoro alla raffineria Iplom di Busalla, un paesino della Liguria dove gli abitanti vivono tra sversamenti di idrocarburi e cisterne di petrolio che possono esplodere da un momento all’altro. E infatti esplodono; 3 volte. Nel 1991, nel 2005 e poi di nuovo nel 2008. I Busallesi e gli operai della Iplom subiscono lo stesso ricatto infame dei tarantini e degli operai dell’Ilva, a nord come a sud c’è da scegliere tra il pane e la salute.
Alberto Prunetti guida il lettore nella progressiva cancellazione dei diritti delle classi più povere, un’erosione che non si ferma neppure davanti alla morte. Amianto prende infatti vita dai documenti raccolti dall’autore per dimostrare allo Stato che suo padre si è ammalato per il lavoro che faceva. Un riconoscimento che arriverà nel 2011, 7 anni dopo la morte di Renato. Un riconoscimento doppiamente beffardo perché da una parte attesta che un delitto c’è stato mentre dall’altra non si individua nessun colpevole. Ma i colpevoli ci sono e Amianto sta lì a ricordarcelo. A ricordarci che senza un lavoro attivo della memoria le ingiustizie del passato sono destinate a generarne di nuove nel presente.
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