Ministero della Cultura, tanti sì alla svolta

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ROMA — Istituire anche in Italia un ministero della Cultura partendo dalla constatazione che l’attuale crisi italiana «non è (o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È prima di tutto una crisi di identità  e cioè in definitiva una crisi culturale». La proposta è stata lanciata ieri sul Corriere della Sera da Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia. Un ministero della Cultura dovrebbe «aiutare il Paese a pronunciare una parola alta e consapevole sulla sua storia passata e recente, aiutarlo a far udire questa voce fuori dei suoi confini e ridefinire quello che può essere il ruolo dell’Italia in Europa: un ruolo prima che politico e istituzionale, ideale e umano. Il ruolo della cultura, appunto». Favorevole Mario Monti: «Assolutamente un percorso percorribile. Ci vuole un centro propulsore per valorizzare questa ricchezza che il nostro Paese ha in quantità  e qualità  straordinaria, che ci siamo un po’ dimenticati e che non utilizziamo». Dalla politica arriva la riflessione di Giorgio La Malfa che ricorda come, quando si fondò il ministero per i Beni culturali voluto da Giovanni Spadolini, si discusse se istituire o no un ministero della Cultura: «I due autori dell’articolo hanno assolutamente ragione a considerare il tema della crisi dell’identità  nazionale come uno dei fattori che aggravano la crisi italiana. E tuttavia la risposta a questa crisi d’identità  e di valori può venire dagli intellettuali o dagli uomini politici degni di questo nome, non da un organismo della pubblica amministrazione com’è un ministero».
D’accordo con la proposta è invece l’archeologo Andrea Carandini, ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali: «Ipotesi intelligente e puntuale. Credo si immagini un ministero che difenda il Patrimonio ma nel contempo abbracci l’intero ventaglio della vicenda culturale italiana contemporanea. Comprese, per esempio, le sorti delle nuove professioni che nascono dalla cultura, le creazioni nei vari settori. Ma questa ipotesi è verosimile solo a un patto: che un nuovo governo dimentichi le tristi vicende di un ministero dei Beni culturali ormai morto e sposi una concezione della cultura come ingrediente caratterizzante qualsiasi produzione legata al marchio Italia. Se così non fosse, sarebbe solo una ulteriore complicazione». L’idea di ripensare il ministero dei Beni culturali era stata espressa giorni fa anche da Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai, il Fondo ambiente italiano: «Il dicastero dei Beni culturali, che durante gli ultimi governi è stato volutamente lasciato morire, andrebbe completamente rifondato e finanziato». A proposito di Fai, parla anche Ilaria Borletti Buitoni che ne ha appena lasciato la presidenza operativa per candidarsi in Lombardia alla Camera con Scelta civica per Monti: «La proposta di Esposito e Galli della Loggia di un ministero custode anche del patrimonio immateriale, la cultura italiana, che precede quello materiale, i beni, è ottima. Passando al concreto occorrerà  avere il coraggio di ridisegnare un apparato ministeriale molto sofferente, anche (ma non solo) per le ragioni economiche che hanno ucciso l’attuale dicastero».
Assai articolato il pensiero della regista Liliana Cavani: «Molto interessante la proposta. Nel nostro Paese la cultura è sempre più abbandonata quando non detestata o ignorata. Viene percepita come una voce di bilancio che fa perdere denaro. Mi è capitato di percepire in talune situazioni che la parola stessa “cultura” crea un senso di noia e fastidio. E invece tutto lo sviluppo economico di punta nel mondo deriva dalla ricerca e dalla cultura». Cavani propone un parallelo nel mondo che meglio conosce: «L’industria cinematografica (e audiovisiva) che soltanto nel Lazio dà  lavoro a 250.000 addetti di varie professionalità  tecniche, artigianali, artistiche secondo un ventaglio di applicazioni in continua innovazione, è in grave crisi. Vano è stato ogni tentativo da parte degli addetti di ottenere attenzione fattiva da parte della politica. In Francia accade l’opposto: lì il cinema è considerato strategico e centrale allo sviluppo culturale ed economico». La regista, con una provocazione, sostiene: «Secondo i politici il cinema era ed è un’industria della quale si può fare a meno, tanto i film si comprano all’estero e costano pure di meno. Così importiamo da sempre tanto cinema (e va bene) ma non esportiamo quasi niente. Siamo un Paese che dal punto di vista dei film per sala e TV si può paragonare ormai, che so, al Burkina Faso. Rattrista ascoltare i programmi elettorali e non percepire la profonda preoccupazione per l’arretratezza culturale nella quale siamo immersi. Eppure solo lo sviluppo culturale può creare lavoro. Il ponte per il passaggio dall’arretratezza è solo quello».


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