L’ultimo assalto a Timbuctù così la guerra uccide la cultura

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L’ultimo sfregio riguarda un palazzo sontuoso, ma non certo prezioso: la residenza che il leader libico Muammar Gheddafi si era fatto costruire a Timbuctù, la capitale culturale del Mali, il cuore della regione dei Tuareg, è stata distrutta qualche giorno fa dai bombardamenti dell’aviazione francese: era diventata il quartier generale dei jihadisti che dalla città  del deserto hanno lanciato l’assalto al Mali. L’edificio non sarà  certo fra i più importanti, ma quando gli esperti riusciranno finalmente a tornare nella “città  dei 333 santi”, come è conosciuta, dovranno segnare anche questo nella lista di quelli perduti.
C’è un effetto collaterale della guerra in Mali, così come di tanti altri conflitti, che nelle ore della battaglia sfugge ai più: è la distruzione del patrimonio artistico dei paesi interessati. In Mali come è accaduto in Afghanistan, come avviene in queste ore in Siria, come accadde in Jugoslavia negli anni ’90 o in Libano durante la guerra civile, a morire sotto le bombe non sono solo le persone, ma anche i monumenti e gli oggetti d’arte.
Per il paese africano l’allarme è particolarmente elevato: il Mali ospita quattro siti riconosciuti come patrimonio mondiale dell’umanità  (la tomba dell’imperatore Askia, la falesia dei Dogon a Bandiagara, la città  di Fango di Djennè e Timbuctù) e almeno due, Djennè e e Timbuctù, sono direttamente interessate dai combattimenti in corso. Nella città  dei 333 Santi, capitale culturale dell’intera Africa fra il 15simo e il 16simo secolo, la situazione è particolarmente difficile: gli estremisti che l’hanno conquistata hanno già  distrutto nei mesi scorsi parte dei mausolei sacri e nei combattimenti sono andati distrutti un numero imprecisato di preziosi manoscritti antichi. Una tragedia, l’hanno definita gli esperti di tutto il mondo, che si accompagna con quello che da mesi sta accadendo ad Aleppo, in Siria, anch’essa patrimonio mondiale dell’umanità . Le testimonianze parlano di zone dell’antico suq, vecchio di millenni, rase al suolo e di interi edifici bruciati. Immagini che richiamano alla memoria il
rogo della biblioteca di Sarajevo o la distruzione del ponte di Mostar durante il conflitto in Jugoslavia o, più recentemente, quelle dei Buddha di Bamyan fatti
saltare in aria dai Taliban nel marzo 2001. Di lì a poco seguì il sacco del museo di Bagdad, con 15mila tesori dell’antica Mesopotamia rubati e scomparsi per
sempre. Al Cairo, nei giorni della rivoluzione del 2011, per un momento si temette che qualcosa di simile accadesse al Museo egizio: ma l’aggressione fu fermata
in tempo. In Tunisia invece, è la fase post-rivoluzionaria ad essersi rivelata la più rischiosa: notizie sulla distruzione dei mausolei sufi da parte di estremisti islamici si susseguono da mesi.
Storia vecchia quella del patrimonio artistico distrutto dalle guerre, che è avuto uno dei suoi apici durante la Seconda guerra mondiale, quando sotto le bombe e i colpi di artiglieria l’Europa perse alcuni dei suoi capolavori più preziosi: ma storia che si ripete, di conflitto in conflitto, e che il passare del tempo non sembra destinato a cambiare.
Con qualche lodevole eccezione: uno dei momenti più emozionanti per il visitatore che si avventuri fino a quel gioiello sconosciuto ai più che è il Museo di arte antica di Beirut è la proiezione del filmato che mostra i capolavori fenici e romani emergere interi dai sarcofagi di mattoni in cui gli addetti del museo, disperati, li avevano sepolti quando la guerra civile nella capitale libanese divenne una condizione cronica. Dopo 18 anni di bombe e di cecchini, sotto gli occhi della telecamera e di chi le temeva perse per sempre le statue tornano alla vita, intatte. La bellezza vince sulla guerra, sembrano dire a chi le guarda oggi: e speriamo che un giorno anche a Timbuctù sia lo stesso.


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