«Primato italiano delle prescrizioni Spariti centotrentamila processi»

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MILANO — Un record europeo, seppure «triste primato», l’Italia lo festeggia nelle cerimonie di apertura dell’Anno Giudiziario: «130.000 processi estinti per prescrizione l’anno scorso e, paradossalmente, il più alto numero di condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’irragionevole durata dei processi». Ma la ricetta più inflazionata in seno alla magistratura, quella di invocare che il legislatore allunghi i termini di prescrizione o la blocchi al momento del rinvio a giudizio, è valutata «non opportuna» dal presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, che in alternativa propone un sistema «alla tedesca»: cioè stop alla prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, ma a patto che l’imputato da quel momento possa contare (pena «l’improseguibilità  dell’azione penale») su «termini certi e legalmente predeterminati» per i successivi gradi di giudizio. Due anni per l’Appello e un anno per la Cassazione, però con possibilità  di calibrare la clessidra «sul numero di imputati/imputazioni/ difensori e esigenze di riapertura dell’istruttoria». Ma non funzionerebbe mai — avvisa Canzio — senza il contemporaneo snellimento delle regole in tema di «competenza, invalidità  degli atti, notifiche, gravami incidentali, soprattutto selezione delle impugnazioni ammissibili», e senza «forme di obbligatorietà  temperata». Canzio vuole così scongiurare che si arrivi (come fa il vice del Csm, Michele Vietti) a prendere in considerazione l’eliminazione secca di uno dei tre gradi di giudizio: «Non sarei così drastica», commenta a Torino il ministro Paola Severino, come Canzio più incline a contenere «le impugnazioni palesemente dilatorie».
Ma da Milano è un altro alto magistrato, il procuratore generale Manlio Minale, a rimarcare che «l’obbligatorietà  dell’azione penale non sopporta aggettivazioni», e ad incitare a «resistere al vento di un malinteso aziendalismo giudiziario» che «ormai vede l’Appello come un lusso che non ci possiamo più permettere, mentre è invece una delle garanzie che non possono essere sacrificate sull’altare della ragionevole durata del processo».
In tutta Italia si lamentano le inumane condizioni dei detenuti in carcere sovraffollate. E, nessuno segue i radicali sulla richiesta di «una amnistia per la giustizia», in ogni città , come già  al Ministero e in Cassazione, il procuratore milanese Edmondo Bruti Liberati miete consensi alla circolare con la quale, dopo la sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo, ha invitato i suoi pm a moderare la custodia cautelare in indagine e a favorire le misure alternative al carcere. Ma anche qui è ancora Minale a smarcarsi clamorosamente e a rivendicare che, «se le carceri non reggono, non devono essere le Procure ad assumersi compiti impropri: forse si dovrebbe non tanto ridurre le richieste di arresto fondate (77% accolte dai gip a Milano), quanto eliminare quelle infondate».
Ovunque tiene banco il disagio per i magistrati che si sono candidati alle elezioni, criticati con toni più o meno accesi dal presidente della Corte d’Appello romana Giorgio Santacroce («Non mi piacciono i magistrati che non si accontentano di fare bene il loro lavoro ma si propongono di redimere il mondo») e dal procuratore generale perugino Giovanni Galati («La magistratura non ha bisogno di pseudo rivoluzionari o di novelli partigiani»).
In quasi tutte le sedi si apprezza la legge Severino sull’anticorruzione, più nello spirito che nel contenuto di cui viene auspicato un irrobustimento, anche se a Torino il procuratore generale Marcello Maddalena giudica «esagerate le lodi», specie «sulla prevenzione, che mi sembra creare solo carrozzoni inutili e dispendiosi».
Altrove è l’attualità  a imporsi. Come a Lecce, dove il presidente Mario Buffa (competente anche su Taranto) denuncia che «sull’Ilva il governo ha fatto una legge ad aziendam nella scia delle leggi ad personam, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte». E dappertutto i rappresentanti dei magistrati onorari (che, ignoti ai più, mandano avanti metà  della baracca giudiziaria italiana), confessano «una grossa delusione: è la prima volta che un ministro, nel suo mandato, neanche ci riceve».


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