by Sergio Segio | 12 Gennaio 2013 8:09
Pubblicato nel 1964, I tre Cristi di Milton Rokeach è una pietra miliare negli studi sulla schizofrenia, ma non è questo il vero motivo per cui lo si ristampa e lo si legge, divertiti e commossi, come un’opera di grande poesia. Non è un caso che a firmare l’introduzione di questa edizione italiana sia un romanziere del calibro di Rick Moody, e non un’autorità accademica. Quella di Rokeach, in effetti, appartiene a una famiglia di opere che, nate dal desiderio di approfondire la conoscenza della psiche, con l’andare del tempo hanno rivelato altissime qualità estetiche, che ne hanno salvaguardato la durata e il fascino intrinseco, anche a dispetto del loro eventuale «invecchiamento» scientifico. Il capostipite di questa tradizione è ovviamente identificabile con la serie dei Casi clinici di Freud. Ma nell’elenco figurano libri memorabili come Arte e follia in Adolf Wà¶lfli di Walter Morgenthaler, la Vita non romanzata di Dino Campana di Carlo Pariani, Il caso Suzanne Urban di Ludwig Binswanger, Le mani del dio vivente di Marion Milner. Questi medici-scrittori non si consideravano affatto degli emuli e dei concorrenti di Proust o di Joyce. Ma il loro lavoro, basato sull’analisi empirica di esistenze reali, rappresenta di fatto uno straordinario ampliamento dello spazio letterario, se per «letteratura» intendiamo, nell’accezione più vasta possibile, un’indagine per sua natura interminabile sui limiti, le possibilità , le aspirazioni più segrete dell’umano. E tutti quegli stati d’eccezione che compongono il lungo catalogo delle nevrosi e delle follie rappresentano, per chi sia capace di raccontarle, strumenti di conoscenza potenti come i miti, le favole, le visioni dei poeti. Bisogna anche aggiungere che oggi l’arte di raccontare un caso clinico, confrontata ai grandi esempi del passato, sembra attraversare una fase di irrimediabile declino. Il genio di Oliver Sacks troneggia quasi solitario, mentre infuria il gelido vento dello specialismo. E così le nuove Dore e i nuovi piccoli Hans, se non hanno perduto chi è in grado di curarli, non hanno più i loro romanzieri.
Milton Rokeach, americano di origine polacca, vissuto tra il 1918 e il 1988, è il tipico rappresentante di questa vecchia guardia di scienziati-umanisti che sto tentando di rievocare con il dovuto rimpianto. L’ispirazione dell’eccezionale esperimento di cui racconta nei Tre Cristi, durato dal 1959 al 1961, gli era venuta dalla lettura di un aneddoto storico raccontato da Voltaire in una nota a Dei delitti e delle pene di Beccaria. C’era un tempo in cui le vere scintille delle ricerche scoccavano da letture vaste e da scoperte casuali. Oggi questa è un’eresia, e lo stesso sistema di valutazione dei titoli accademici, le tanto lodate «quotations», non fa che scoraggiare ogni forma di libera avventura intellettuale, rinchiudendo gli studiosi nei loro asfittici loculi disciplinari. Ad ogni modo, Voltaire raccontava di un pazzo vissuto verso la metà del Seicento, che si credeva Cristo. Quest’uomo viene rinchiuso in un ospizio dove incontra un altro folle, che a sua volta si definiva il «Padre Celeste». Questo incontro turba tanto il supposto Cristo, da causare un temporaneo rinsavimento. C’era abbastanza materiale, nella pagina di Voltaire, per suscitare il più vivo interesse in uno psicologo come Rokeach. Chiunque ha avuto a che fare con forme di schizofrenia di tipo paranoide (il cui esempio più proverbiale è il paziente che si crede Napoleone) sa bene che è difficilissimo penetrare nella cortina di ferro di un delirio, per modificarlo anche solo in alcuni particolari. Si può dire che lo schizofrenico paranoide, murato nelle sue convinzioni, è la più solitaria di tutte le creature, mancando di ogni forma di empatia, e rendendo praticamente vano lo scambio linguistico. È una specie di irrimediabile ergastolo mentale.
Eppure, la storiella raccontata da Voltaire sembra indicare un modo diverso di osservare la questione. Evidentemente, in circostanze che si potrebbero definire «omeopatiche», si può verificare un cambiamento nei contenuti del delirio. Ciò potrebbe verificarsi, pensò Rokeach, mettendo a contatto dei pazienti dotati di convinzioni simili riguardo alla loro identità . Dopo un’attenta ricerca negli istituti psichiatrici del Michigan, vennero individuati tre casi abbastanza simili da permettere l’esperimento. Clyde Benson, Joseph Cassel e Leon Gabor (questi sono i nomi fittizi che lo psicologo gli attribuisce nel libro) erano tutti e tre convinti di essere Gesù Cristo. Invitati a vivere nello stesso padiglione e ad affrontarsi nel corso di riunioni quotidiane, vennero registrati e osservati da Rokeach e dai suoi collaboratori con la massima attenzione a tutti quei cambiamenti prodotti dall’interazione.
A partire dallo shock iniziale, che si può riassumere in una semplice domanda: se io sono Gesù Cristo, come è possibile che ci siano altre due persone in questa stanza che credono altrettanto di sè? Non breve, la cronaca dell’esperimento di Rokeach si legge tutta d’un fiato, tra i misurati interventi di riflessione dello psichiatra e le irresistibili, e a volte geniali, dichiarazioni dei pazienti, che a modo loro, e nonostante l’inevitabile competitività generata dal confronto, sviluppano il sentimento di appartenere a un gruppo privilegiato, distinto da tutti gli altri pazienti dell’ospedale. «Sono Dio e ho uno psichiatra», esclama a un certo punto Joseph, «ma sarò un Dio ben diverso quando avrò riottenuto il mio potere».
Gli ideatori dell’esperimento, per conto loro, non dimenticano mai lo scopo principale della ricerca, che è quello di mettere alla prova «l’incapacità di interessarsi dei sentimenti altrui» tipica della schizofrenia cronica. Non perché sia dotato di un qualche «bello stile», qualità sempre discutibile e opinabile, Roekeach ha dato prova di essere un vero scrittore nei Tre Cristi. Semmai, il suo talento e il suo sapere collaborano nel rendere i tre protagonisti del racconto esseri umani nel senso più pieno della parola: unici, vale a dire, e imprevedibili nei loro sentimenti. E se nessuno gli tolse mai dalla testa di essere Gesù Cristo, ognuno lo fece a modo proprio. Che è proprio quello che ognuno di noi può augurarsi dalle proprie personali follie
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