LO STRABISMO DI HOLLANDE

by Sergio Segio | 17 Gennaio 2013 9:38

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E in Africa l’opinione pubblica dei paesi vicini – non solo i regimi che a Parigi devono la loro stessa esistenza, come quello di Alassane Ouattara in Costa d’Avorio – salutano «Hollande il maliano» e convengono sul fatto che sì, stavolta la Francia ha fatto proprio la cosa giusta. Persino i tuareg laici dell’Mnla (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad), iniziatori dell’offensiva che ha portato all’attuale situazione, hanno offerto la loro collaborazione alle truppe francesi.  Con l’intento evidente di vendicarsi dei «difensori della fede», gli ex alleati che hanno preso il sopravvento liquidando il sogno comunitario degli «uomini blu». Insomma, l’odioso spauracchio jihadista che da quasi un anno affligge il nord del Mali si è rivelato un miracoloso fluido unificante.
Si può capire: a nessuno piacerebbe trovarsi i qaedisti sull’uscio, intenti a tagliare le mani ai ladri, frustare le donne prive di velo, distruggere i monumenti, vietare i bar e la musica. In pochi mesi è andato distrutto il fragile ma inebriante mosaico messo insieme in secoli di convivenza, una pluralità  culturale di cui il compianto Ali Farka Touré è stato forse il sommo cantore. Ma le bombe sono davvero la ricetta giusta per ricostruire? Qui non è in discussione l’eventuale nobiltà  della causa, quanto i metodi utilizzati per farla prevalere. Di più, viene da chiedersi cosa distingue gli islamisti “cattivi” che Parigi bombarda in Mali da quelli “buoni” che sempre Parigi arma e addestra in Siria. Si temeva che i primi arrivassero a Bamako e si trascura l’eventualità  che i secondi arrivino a Damasco. Per non parlare della Libia, il cui recente riassetto è strettamente imparentato con la guerra maliana: qui le potenze Nato, Francia in testa, hanno spianato la strada ai soliti islamisti, e sempre a forza di bombe.
Sembra di rivedere ad libitum l’Afghanistan, i talebani inventati a tavolino dagli Stati uniti in chiave anti-sovietica, e dopo l’11 settembre gli stessi talebani che diventano il nemico n°1. Anche Hollande versione «gendarme africano» sembra il personaggio ingiallito di un vecchio film e la guerra in Mali è il riflesso di una consuetudine, un automatismo che per quanto consolidato ha bisogno di una rinfrescata. Benvenuti in Sahelistan, dunque.
Per inquadrare meglio la crisi in cui il Mali è precipitato nell’ultimo anno è difficile non valutare il retaggio coloniale e i fantasmi sempre vispi della Franà§afrique; né è possibile ignorare la promessa di ingenti risorse naturali conservata dal sottosuolo di queste terre riarse; poi ci sono le frizioni geopolitiche, squisitamente africane, tra Francia e Stati uniti; e la necessità  di contrastare l’espansionismo economico della Cina in Africa; si può azzardare anche un pizzico di indignato esotismo, con l’antica Timbuctù, regina delle sabbie, sfregiata dalla furia iconoclasta dei barbuti; a monte va considerato inoltre l’ancestrale conflitto tra nomadi e sedentari; e aggiungere l’irruzione dell’Islam radicale in zone apparentemente “moderate” in quanto a orientamento religioso. Ecco così servito il pasticcio che ora rischia di far saltare un’area del mondo più grande dell’Europa, con ricadute ben più ampie di quelle relative agli evidenti legami con le vicende di «Al Qaeda nel Maghreb islamico» in Algeria e della concatenazione di cause ed effetti generata dalla caduta di Gheddafi. Ben oltre gli interessi strategici della Francia, che da quest’area estrae l’uranio indispensabile al funzionamento delle sue centrali nucleari.
Recentemente è stato calcolato che il mansa Musa, il sovrano che ha regnato sull’Impero del Mali nel XIV secolo, è da considerarsi l’uomo più ricco di tutti i tempi, più di Onassis e Bill Gates messi insieme. Di passaggio al Cairo, mentre se ne andava in pellegrinaggio alla Mecca, fu talmente largo di manica che il prezzo dell’oro subì un tracollo senza precedenti. Questo ci racconta almeno tre cose: le malefiche ricchezze annidate in un posto così povero; l’Islam è arrivato qui molto prima di al Qaeda e delle sue filiazioni africane; il Mali era un impero alcuni secoli prima che lo diventasse la Francia.
Il tempo, anche stavolta, ci dirà  come è andata a finire. Ma hai voglia a dire che gli occidentali hanno gli orologi mentre gli africani hanno il tempo. Quando le lancette francesi hanno deciso che il tempo era scaduto, una volta capito che la forza inter-africana autorizzata dall’Onu avrebbe impiegato altri nove mesi per dispiegarsi sul terreno, si è passati all’azione. Questi africani, devono aver pensato all’Eliseo, sono buoni e cari, hanno economie che segnano crescite medie intorno al 7% annuo e fanno ottima musica, ma sono sempre gli stessi, pigri e indolenti. È la Francia, signori: quando non sono bombe è paternalismo puro.

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