L’invito della Cei ad andare alle urne «E non vanno sprecati i sacrifici»

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ROMA — «Gli italiani, a quel che comprendiamo, non chiedono l’impossibile, esigono piuttosto che nessuno dei sacrifici compiuti vada deviato o perduto». Il cardinale Angelo Bagnasco lo ripete come un monito a tutti i partiti, nella prolusione con la quale ha aperto ieri il consiglio della Cei: se il «patrimonio di responsabilità  e rigore, di dignità  e adattamento» mostrato dagli italiani andasse «sprecato per colpa di alcuno», allora «sarebbe un insulto».
Certo lo spettacolo della campagna elettorale non è dei migliori, ma il presidente dei vescovi esorta ad andare a votare superando «allergie e insoddisfazioni anche profonde» perché «la diserzione dalle urne è un segnale di cortissimo respiro». All’inizio chiarisce: «Non è vero che a noi interessa fare politica, noi vogliamo dire Gesù». Ripete col Papa che «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica» e tuttavia «non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia». Così il cardinale Bagnasco — dall’urgenza dei temi sociali e il «Vangelo del lavoro» al «primato» dei «valori non negoziabili e della «biopolitica» che «ormai è una frontiera immancabile di qualsiasi programma» — riprende il filo delle sue precedenti prolusioni e anche dell’intervista al Corriere del 10 dicembre, all’indomani della sfiducia a Monti: quando aveva esclamato che «non si può mandare in malora i sacrifici di un anno».
Ieri ha sviluppato il discorso, «azioni importanti nell’ultimo periodo sono state fatte per recuperare affidabilità  e autorevolezza», aggiungendo: «Anche a prezzo di pesanti sacrifici non sempre proporzionatamente distribuiti». Ora, «scongiurato il baratro» è il momento «del rilancio». Ci vuole «una ripresa concreta, diffusa, equa». Il Paese è «stanco di populismi e reticenze di qualunque provenienza», ha bisogno di riforme che «domani saranno realizzate solo se oggi non si fanno promesse incaute e contraddittorie». Il tono è quasi sarcastico: «Il precipitare della legislatura verso una prematura conclusione sembra aver risvegliato, nel panorama politico, una agilità  e prontezza sorprendenti. C’è un professionismo esibito nelle fasi elettorali che palesemente contrasta con la flemma e la sciatteria dimostrate talvolta in altri frangenti, come se si volesse stare a guardare lo svolgersi degli eventi, pronti ad appropriarsi dei meriti ma non a condividere i pesi». Ma ora «è il sistema che va posto in discussione, il meccanismo consumi-spesa-debito pubblico, abbandonando la logica delle “illusioni” che ha mostrato la propria assoluta inadeguatezza morale e pratica». I partiti devono essere responsabili: «Non c’è rigore istituzionale degno di questo nome se non ci sono formazioni politiche che lo assumono su di sé». La gente «vuole che la politica cessi di essere una via indecorosa per l’arricchimento personale». 
Sono tempi duri, «la condizione di indigenza si va obiettivamente allargando»: il cardinale insiste sull’emergenza lavoro («Gesù ha investito almeno due decenni della sua vita nel laboratorio di Giuseppe») e sull’«epidemia» della «disoccupazione giovanile», condanna come «ingiusto» che quando un’industria è in sofferenza «per prime vengano messe alla porta» le «maestranze» che ne hanno fatto la fortuna. Quanto ai «valori non negoziabili», dalla vita alla centralità  della famiglia che «precede lo Stato» (c’è pure un passaggio sulle adozioni a coppie gay: «Il diritto del bambino — non al bambino — viene prima di ogni desiderio individuale»), Bagnasco ripete che sui principi «il ricorso pur apprezzabile all’obiezione di coscienza» non basta, «persone e istituzioni» non possono stare in silenzio: «Bisogna dire il volto che si vuole dare allo Stato». Dal mondo politico, al solito, giungono plausi. Maurizio Sacconi garantisce che il «Pdl intero in quanto partito» difende nel programma i principi «non negoziabili», il ministro Renato Balduzzi legge un’esortazione a «continuare le riforme del governo Monti». Il cardinale conclude citando le parole del filosofo Robert Spaemann al Corriere: «Se non esiste nessuna verità , allora tutto diventa una questione di potere».
Gian Guido Vecchi


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