Lincoln e Darwin, due rivoluzioni

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 C’ era una volta un’America in cui per sedurre, imporsi e guadagnare consensi alla più impervia delle cause — una causa capace di spaccare il Paese, precipitandolo nell’abisso della guerra civile tra Nord e Sud — un presidente aveva quasi soltanto la parola. Ma che parola. A quasi centocinquant’anni dalla morte di Abraham Lincoln, alcuni passaggi dei suoi discorsi più significativi, primo tra tutti quello per i caduti della battaglia di Gettysburg del 1863, continuano ad avere per gli americani la familiarità  che le parole «Nel mezzo del cammin di nostra vita…» hanno per noi italiani. Ma Lincoln, l’avvocato autodidatta figlio di contadini del Kentucky che riuscì ad abolire la schiavitù e pagò con la sua vita, non era soltanto un leader capace di appropriarsi delle parole di Amleto per arricchire la propria oratoria.
Era un politico spregiudicato, che sapeva tradurre il proprio amore per la letteratura nel più efficace degli strumenti per parlare alla coscienza di una nazione e al cuore dei suoi singoli individui. Così, almeno, lo ha interpretato Tony Kushner, il più geniale degli sceneggiatori americani, in Lincoln, il film diretto da Steven Spielberg in uscita a breve in Italia. E così, come un intellettuale d’azione a un tempo spietato e moralmente ineccepibile, lo descrive Adam Gopnik nel Sogno di una vita (Guanda), un libro che mette insieme due saggi scritti per il «New Yorker», uno su Lincoln e uno sul padre dell’evoluzionismo Charles Darwin: due straordinari protagonisti del XIX secolo, uniti dalla data di nascita condivisa, 12 febbraio 1809.
Concentriamoci dunque su Lincoln. Se quello tratteggiato da Gopnik si presenta come un’inquieta figura a metà  tra lo statista e l’uomo di legge, quello di Tony Kushner, autore di questa sceneggiatura candidata all’Oscar e giocata sulle infinite sfumature e stratificazioni di un dibattito politico serrato, è un’interpretazione del più amato e più enigmatico dei presidenti americani, che lascia ampio spazio di discussione agli storici. Il solo fatto che la questione della schiavitù sia al centro della storia raccontata dal film testimonia il rifiuto da parte di Kushner di sposare le tendenze revisioniste secondo cui sarebbero stati altri fattori — come il contrasto tra il capitalismo industriale del Nord e l’economia agricola del Sud o il divario tra le rispettive culture — le vere cause della guerra civile.
Dal canto suo Gopnik, che nel suo libro si concentra sulla «lingua» di Lincoln — la lingua della giurisprudenza in cui individua «il cuore e lo spirito della sua vita» —, arriva a sostenere che nel caso di quest’uomo eccezionalmente motivato e appassionato nel perseguire il progresso della democrazia, «la retorica e la scrittura hanno avuto un peso altrettanto essenziale delle azioni, gli ordini e le elezioni». Secondo Gopnik, per un raffinato e inflessibile uomo di legge come Lincoln, la ribellione degli Stati del Sud che diede il via alla guerra di Secessione, nel 1861, «non era soltanto sbagliata, ma illegale». E dunque, se possibile, ancora più grave: una questione capitale, di alto tradimento.
Dicono che Kushner abbia consegnato a Spielberg un malloppo di cinquecento pagine: la vita di Lincoln dalla nascita nel 1809, in una casa dal pavimento di terra battuta, alla morte per mano di un oppositore all’abolizione della schiavitù, nell’aprile del 1865. E che Spielberg abbia sforbiciato più di quattrocento di quelle pagine per raccontare qualcosa di più della vita di un grande uomo: un’epoca in cui la democrazia era l’idea controversa di una frangia di radicali, con un futuro assai incerto e legato a un’impresa spericolata come affermare la parità  di diritti tra neri e bianchi.
Il risultato è il racconto delle prime cinque settimane del 1865, che separano Lincoln dall’approvazione del Tredicesimo Emendamento alla Costituzione americana, quello che assicurerebbe per sempre l’abolizione della schiavitù, a condizione che la guerra civile non finisca prima. Un political thriller, dunque: che ripercorre la corsa contro il tempo di Lincoln per raccogliere i voti bipartisan di oltre due terzi dei membri di un Congresso diviso ed esasperato dalla guerra, prima che la sconfitta dei confederati riporti all’ovile gli Stati del Sud. Con i loro rappresentanti, infatti, il Congresso non avallerebbe mai l’abolizione definitiva della schiavitù che Lincoln aveva già  avviato con il «Proclama di emancipazione», emanato il 22 settembre 1862 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1863. In sostanza, il dilemma che si trova ad affrontare il presidente è se accelerare la fine di una guerra che ha già  causato infinite sofferenze e seicentomila morti, o prolungarne il corso per metter fine a un’ingiustizia sociale che rappresenta un ostacolo insormontabile al cammino della democrazia.
Tra il Lincoln nazionalista a sangue freddo descritto dal grande critico letterario Edmund Wilson nel suo classico testo Patriotic Gore (1962) e il genio del compromesso del libro Team of Rivals (2005) della storica Doris Kearns Goodwin (a cui si è ispirato Kushner), che disegna la figura di un presidente malinconico, incupito anche dalla perdita di due figli che ha precipitato la moglie nella depressione, il Lincoln di Spielberg è un uomo dal viso scolpito nel legno e dall’indole solitaria, che porta sulle spalle un senso di responsabilità  come un macigno e assiste ai dibattiti politici con l’aria assente di chi resta rinchiuso in se stesso, quando in verità  è il più astuto degli ascoltatori.
Le sue risposte spiazzano gli interlocutori, o perché sono vaghe e raccontano storielle senza senso, o perché gelidamente motivate, precise e senza assoluzione. Ma il film ci restituisce anche la figura di un presidente pronto a qualunque cosa, quasi pure alla corruzione, per guadagnare i voti necessari a cambiare la storia americana. E in questo senso si presta a essere letto come un messaggio al presidente Barack Obama, che dice che i bei discorsi non bastano e, quando la posta è alta, bisogna sapersi sporcare le mani.
Adam Gopnik invece è contrario all’idea di un Lincoln genio del compromesso come quello descritto da Doris Kearns Goodwin in Team of Rivals. Al contrario, nel Sogno di un uomo quest’uomo misterioso è presentato come un idealista intransigente, che lascia il compromesso ai presidenti che lo hanno preceduto e che non sono stati capaci di risolvere una questione primaria per il progresso della democrazia come l’abolizione della schiavitù.
Come ha ribadito Gopnik in questi giorni sul «New Yorker», partecipando al dibattito degli storici: «Era un uomo che non cedeva di un millimetro, disposto a tutto, anche a sponsorizzare una violenza inimmaginabile; il fatto che abbia pagato il prezzo più alto per i nobili principi morali in cui credeva è una delle cose che rendono la sua storia ancora oggi così eccezionale».


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