L’Europa non sta agganciando la ripresa schiacciata da austerità  e moneta forte

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NEW YORK — «L’euro ha chiuso la settimana scorsa ai massimi sul dollaro dall’aprile 2012, toccando quota 1,336. I mercati lo attendono al varco per vedere se segnerà  nuovi record». L’articolo del Wall Street Journal centra una contraddizione: la moneta unica è sempre più forte, da settimane prosegue la marcia al rialzo, anche se il Vecchio continente è l’unica area del mondo in recessione. L’assurdità  si scioglie se le due frasi precedenti vengono rovesciate e il nesso casuale si inverte: l’Europa affonda nella recessione anche perché è penalizzata da un cambio troppo forte. à‰ una delle ragioni per cui il Vecchio continente rimane ai margini da quella che gli americani battezzano la Grande Rotazione: il ribaltamento di scenari economici, il prevalere dell’ottimismo dopo tanti anni di depressione, il conseguente travaso di flussi di capitali dai bond alle azioni. Nei 9 giorni lavorativi dall’inizio dell’anno, ben 22 miliardi di dollari si sono investiti nelle Borse, di cui 10,4 miliardi in azioni Usa e 7,4 nelle aziende quotate dei paesi emergenti (Brics). Neppure un miliardo, invece, ha raggiunto le Borse europee: un rigagnolo, che conferma la diversità  negativa dell’Europa, dove perfino la Germania è in bilico sull’orlo della recessione. Euro forte e “perma-austerity” sono i due fattori che finora impediscono al Vecchio Continente di agganciarsi alle locomotive della ripresa mondiale e cioè America e Brics. La forza eccessiva della moneta è meno dibattuta dell’austerity, ma non è meno importante. Lo stesso Wall Street Journal ricorda che i mercati guardano con attenzione a un appuntamento di questa settimana: l’atteso discorso, domani a Tokyo, del governatore della Banca del Giappone Masaaki Shirakawa. Da quel discorso si avrà  conferma dei massicci acquisti di euro effettuati dalla banca centrale: un colosso che rimane il numero due mondiale per la ricchezza delle sue riserve valutarie subito dopo la banca centrale cinese. Il Giappone reduce dalle elezioni e dalla vittoria di Shinzo Abe sta copiando la ricetta vincente della ripresa americana: politiche keynesiane (90 miliardi di euro in grandi opere), più moneta debole. Abe ha minacciato di cambiare lo statuto della sua banca centrale, se questa non eseguirà  le direttive. E le grandi manovre per svalutare lo yen sono già  cominciate: comprando euro, per l’appunto. L’euro viene così sospinto al rialzo dalle politiche convergenti di “tutti gli altri”: cominciò la Federal Reserve con il suo “quantitative easing”, una creazione poderosa di liquidità  che ha tra i suoi effetti collaterali (inconfessato ma molto desiderato) proprio l’indebolimento del dollaro a vantaggio della competitività  del made in Usa. La banca centrale svizzera, per impedire un rincaro della sua moneta che avrebbe messo fuori mercato alcune delle sue industrie, impose un tetto al valore del suo franco. La Cina ha navigato cautamente a metà  strada fra il dollaro e l’euro, ben guardandosi dal seguire la moneta unica nella sua traiettoria rialzista. In questa “guerra delle monete”, come la definisce il ministro brasiliano dell’economia Guido Mantega, un perdente sicuro è il settore manifatturiero europeo: da una parte è schiacciato dalla domanda interna asfittica, per gli effetti dell’austerity sul potere d’acquisto delle famiglie; d’altra parte si vede insidiate le sue quote di commercio mondiale da grandi potenze che manovrano spregiudicatamente il cambio. «à‰ la fine dell’indipendenza delle banche centrali», osserva sul Financial Times Stephen King, non il maestro dei thriller bensì l’autorevole chief economist di Hsbc. Quella del Giappone è di fatto sotto minaccia di commissariamento. La banca centrale americana da parte sua dà  un’interpretazione sempre più “progressista” del suo mandato.
Il presidente della Fed, Ben Bernanke, vuole continuare i suoi massicci acquisti di bond (pompa 85 miliardi di liquidità  ogni mese) finché la disoccupazione Usa non scende fino al 6,5% (oggi è al 7,8% dopo aver superato il 10% durante la recessione). à‰ evidente la convergenza tra la strategia della Fed e l’agenda politica di Barack Obama. Sul tema del mandato istituzionale della Bce, Mario Draghi è stato interrogato alla sua ultima conferenza stampa, e ha risposto in modo cauto. Certo non rientra nei suoi poteri cambiare un mandato che è scritto nei Trattati Ue, e che ricalca l’ossessione anti-inflazionista della Bundesbank. Ma se la politica della Bce non ha la possibilità  di rispondere alle offensive di Giappone e Usa, l’handicap resterà  grave per l’industria europea. Tanto più che si aggiunge all’altra anomalia europea: la “perma-austerity”, secondo la definizione di Wolfgang Munchau sul Financial Times.
Perfino la Germania, cioè l’unica nazione europea che potrebbe trasformarsi in locomotiva, «prepara un nuovo bilancio di austerity per il 2014, per rispettare l’obbligo costituzionale di pareggio strutturale del bilancio pubblico ». à‰ una rigidità  sconosciuta a Washington, Tokyo, Pechino o Brasilia, cioè tutti i paesi che hanno ripreso a crescere.


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L’Europa si divide in due. Da un lato i Paesi del Sud. Le cicale. Fannulloni e pigri, non lavorano e hanno una bassa produttività , spendono troppo per welfare e stato sociale. Sono loro i responsabili della crisi e ora devono stringere la cinghia e accettare giusti e inevitabili sacrifici. Dall’altra i Paesi dell’Europa del Nord, riuniti attorno alla Germania.

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