L’età  della resilienza

by Sergio Segio | 23 Gennaio 2013 7:43

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NEW YORK. «Nell’uscire dalla grande crisi abbiamo dimostrato la nostra resilienza », ha detto Barack Obama nel discorso dell’inaugurazione. «Dinamismo resiliente», è la nuova parola d’ordine lanciata quest’anno al World Economic Forum di Davos. Se l’America “resiliente” è uscita per prima dalla recessione fra le economie occidentali, c’è una ricetta che l’Europa può imparare? Che cosa si nasconde dietro questo neologismo che dilaga tra economisti, sociologi, guru delle nuove tecnologie? C’è chi suggerisce di adottarlo come nuovo obiettivo anche nella tutela dell’ambiente: la “resilienza” è ancora meglio della sostenibilità .
Per una volta non stiamo importando anglicismi. Resilienza esiste in italiano, anche se viene prevalentemente usato in campi diversi dall’economia. Per gli ingegneri descrive la capacità  di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi. Per gli psicologi è la risorsa che consente un recupero più rapido dopo una depressione, aiuta a superare traumi e dolori. In ecologia riassume una forza intrinseca degli ecosistemi: la predisposizione a ritrovare l’equilibrio dopo uno shock esterno. Non è difficile intuire perché questo concetto abbia cominciato ad affascinare gli economisti. Siamo appena usciti — in America, non ancora in Europa — dal più grave “shock sistemico” che abbia mai colpitol’economiamondialedopo la Grande Depressione degli anni Trenta. Capire che cosa ci rende “resilienti” di fronte a questo genere di catastrofi, può essere essenziale per evitarle in futuro. O meglio: per ridurre i danni, sociali e umani, quindi ripartire al più presto.
Poiché l’ecologia ha un’antica dimestichezza con la resilienza, non è un caso se la riflessione è più avanzata in questo campo. Un libro che ha contribuito ad alimentare il dibattito è quello pubblicato da Andrew Zolli e Ann Marie Healy: “Resilience: Why Things Bounce Back”. Ovvero, letteralmente, “perché le cose rimbalzano”. Zolli dirige PopTech, un network di innovatori nel campo delle tecnologie e non soltanto. Di fronte alle grandi sfide del nostro tempo — le diseguaglianze sociali, l’inquinamento e il cambiamento climatico — Zolli sostiene che la parola d’ordine della sostenibilità  si sta rivelando inadeguata. «Parlare di sostenibilità  significa darsi l’obiettivo di ripristinare l’equilibrio perfetto».Un’illusione.Molto più realistico è «imparare a gestire un mondo in perpetuo squilibrio ». Il guru dell’innovazione sostiene che «un numero crescente di scienziati, pensatori sociali, attivisti della società  civile, filantropi, s’interessano alla resilienza per aiutare le categorie più vulnerabili a sopravvivere e perfino a prosperare di fronte a sconvolgimenti imprevedibili».
Un esempio interessante di riflessione sulla resilienza riguarda la città  di New York nel dopo-Sandy. I traumi di quell’uragano non si sono ancora esauriti, i danni non sono completamente riparati. Ma già  si è avviata una discussione importante, su come una grande metropoli post-industriale del terzo millennio debba prepararsi agli eventi meteorologici estremi. Più che “affrontare” le calamità  illudendosi di poter sostenere una prova di forza con la natura, forse è più saggio “adattarsi”? Il primo approccio, è quello che spingerebbe a investire nella costruzione di robuste barriere fisiche contro i futuri tsunami. Costosissime dighe, e non necessariamente invulnerabili. Ma la natura stessa ha elaborato altre risposte, più flessibili: per esempio le “wetland”, zone umide, paludose, acquitrini naturali, laghetti e stagni, insomma una barriera mobile che può accomodare l’afflusso inusitato di una massa d’acqua, depotenziarne la capacità  distruttiva. In un altro campo, Zolli cita la visione degli psicologi sui fattori che ci rendono resilienti di fronte ai traumi e al dolore: la solidità  delle nostre amicizie, la qualità  delle nostre relazioni sociali, la profondità  degli affetti, nonché i valori in cui crediamo. In generale, perché la resilienza può aiutarci e può essere una risorsa ancora più sicura della sostenibilità ? «Perché l’equilibrio perfetto non è di questo mondo. Tutti i sistemi attorno a noi si evolvono attraverso errori, tentativi, adattamenti, apprendimenti. È dai fallimenti, dagli insuccessi, che impariamo a crescere».
In campo economico-finanziario, questa riflessione ha come protagonista uno dei massi-crisi esperti del rischio. Si tratta di Nassim Nicholas Taleb, colui che inventò il concetto del “cigno nero”: un evento statisticamente rarissimo, quasi impossibile, e come tale capace di sconvolgerci, precipitarci in una crisi sistemica. Un esempio è proprio il crac dei mutui subprime del 2007, poi allargatosi in un collasso globale del credito. L’ultimo saggio di Taleb s’intitola “Antifragile”, un sinonimo di resiliente. Il sottotitolo: “Le cose che migliorano grazie al disordine”. La sua tesi è questa: poiché non riusciremo mai a prevedere adeguatamente il futuro, è molto più utile imparare a migliorare noi stessi sfruttando gli shock, a trarre beneficio dai traumi esterni quando ci aggrediscono. Dopotutto, è quello che la natura riesce a fare abbastanza spesso. L’evoluzione della specie approfitta delle mutazioni genetiche casuali, per renderci più forti.
Sulla resilienza dell’economia americana imperversa una battaglia ideologica. La destra neoliberista cercò d’impadronirsi di questa idea contro Obama. Il 31 ottobre 2011, quando la ripresa Usa era già  avviata e il Pil cresceva del 2,5%, il Wall Street Journal lanciò il dibattito su The Resilient Economy.
Con una tesi molto netta: se il motore dell’economia ha ripreso a girare è tutto merito del settore privato. Resiliente “nonostante” le interferenze del governo. Dal
Wall Street Journal veniva così un peana della distruzione creativa del capitalismo, termine coniato da Karl Marx e rilanciato da Joseph Schumpeter nel 1942 applicandolo alle analisi sulla depressione. La vera resilienza dell’economia americana sarebbe dunque nelle capacità  innovative dei suoi imprenditori, questo il nocciolo duro del pensiero neoliberista. Che ignora tuttavia altre forze sottostanti: per esempio quell’immigrazione che Obama vuole facilitare sempre di più, e che garantisce all’America una demografia positiva. Inoltre l’equazione “capitalismo uguale resilienza” viene smentita proprio da Taleb e dagli eventi del tipo “cigno nero”. Mentre la biologia e la psicologia lavorano per fare un uso costruttivo degli errori, questo non accade necessariamente nei sistemi economici. Un esempio che usa Taleb: quando si verifica un crac bancario, l’incidente non rende meno probabile bensì più probabile la sua ripetizione: è l’effetto-contagio derivante dall’interconnessione delle banche.
La ricetta segreta della resilienza è stata studiata da un gruppo di economisti che ha concentrato l’attenzione su nazioni molto piccole. Sono ricercatori guidati da Lino Briguglio, Gordon Cordina, Stephanie Vella e Constance Vigilance, che hanno pubblicato “VulnerabilityandResilience”.In questo studio, ribattezzato manuale per “piccoli Stati”, spicca il cosiddetto paradosso di Singapore. Più che una nazione, questo dragone asiatico è una città -Stato. Le sue dimensioni rendono Singapore terribilmente vulnerabile: troppo dipendente dalle esportazioni, quindi indifeso di fronte agli shock esterni che provengono dall’economia globale. Eppure Singapore è diventato un laboratorio di resilienza. Così come, per altri versi, la Svizzera. Esempi interessanti per nazioni medio-piccole come l’Italia, anch’essa dipendente dagli sbocchi sui mercati globali. Le ricette che salvano queste piccole nazioni dal benessere elevato e stabile, sono la qualità  della governance e lo sviluppo sociale. Dunque non si tratta di capitalismo sregolato. La resilienza è la conquista di politiche che investono nella scuola, nella riqualificazione dei lavoratori licenziati, nelle reti di protezione sociale, nella ricerca scientifica. Anche il World Economic Forum di Davos ammette che la via maestra alla resilienza non è il laissez-faire.
Tra i protagonisti del summit sulla resilienza ci sono gli “imprenditori sociali”, quelli che indirizzano i loro talenti verso la soluzione dei grandi problemi del nostro tempo: le diseguaglianze di reddito, le emissioni carboniche, la penuria di acqua, l’aumento della longevità .

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