Le Cassandre (smentite) di Davos sulla fine dell’euro e della Grecia

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DAVOS — Quelli che l’anno scorso avevano previsto l’implosione sono tornati. Da stamani le strade ghiacciate di Davos e i corridoi del suo Centro congressi sono di nuovo percorsi a grandi passi dagli economisti, i banchieri di Wall Street e i gestori di hedge fund che dodici mesi fa riuscivano a concordare su tutto meno che su un punto: alla prossima edizione del World Economic Forum, quella che debutta oggi a Davos, l’area euro non sarebbe arrivata intera. Avrebbe perso pezzi prima, a partire dalla Grecia.
L’elenco potrebbe essere lungo e a tratti un poco pietoso. Non è tanto l’ennesima «previsione» funesta di Nouriel Roubini, della New York University, il quale un anno fa dal palco centrale di Davos annunciò che Atene si sarebbe sganciata dal treno della moneta unica in meno di 12 mesi. Né è solo il premio Nobel Joseph Stiglitz, altro tradizionale fustigatore del tipo di banchieri raccolti a Davos, il quale per niente al mondo si perderebbe mai un’edizione dell’evento nella cittadina svizzera. Stiglitz ancora nell’aprile scorso spiegava che l’euro si stava «dirigendo verso il suicidio». Niente di drastico come la profezia di Paul Krugman, altro Nobel per l’economia, secondo il quale l’euro «potrebbe andare in pezzi a velocità  stupefacente in una questione di mesi, non anni» («New York Times», maggio scorso) e che la Grecia avrebbe fatto secessione in poche settimane (stessa pubblicazione, stesso mese).
Ma, appunto, tutto questo fra gli intellettuali di Davos in fondo non deve sorprendere. Gente così non viene invitata a Davos a mescolarsi ai banchieri, ai manager degli hedge fund o dei grandi fondi di private equity, perché questi ultimi pensano di aver bisogno di capire dove va il mondo. Se non altro, i cosiddetti «titani» di Wall Street pensano di aver assunto analisti meno coloriti ma più puntuali delle grandi star. I Roubini, o gli Stiglitz, servono a Davos piuttosto per alimentare quel gioco di società  chiamato «dibattito globale» che offre a tutti la scusa ideale per stare un po’ assieme (e parlare di affari nei corridoi). Dunque più sono controversi, meglio è.
Piuttosto, a stupire è qualcos’altro. All’ultimo «World Economic Forum», un anno fa, hanno previsto l’apocalisse dell’euro anche coloro che non erano tenuti a farlo per la natura del loro ruolo nel club davosiano. Gary Cohn, presidente di Goldman Sachs, riteneva che per lui era «dura» non pensare che il posto migliore per la Grecia era fuori dall’euro. E John Paulson, l’uomo che nel 2008 stabilì il record dell’arricchimento più rapido in meno tempo puntando contro i «subprime», disse che l’euro era «strutturalmente errato» e sarebbe finito in frantumi.
In seguito, il mese scorso, Paulson avrebbe spiegato agli investitori che gran parte delle perdite registrate dal suo «hedge fund» nel 2012 erano legate alla scommessa che la crisi dell’euro sarebbe peggiorata ancora. Non è andata così. Chi si è lasciato convincere dai discorsi di Davos l’anno scorso e ha puntato sull’idea che la moneta andasse in pezzi, quest’anno torna fra le Alpi svizzere un po’ meno ricco. Meno, se non altro, di come avrebbe potuto essere se non avesse creduto a una parola di quegli scenari di catastrofe. I titoli di Stato greci nell’ultimo anno sono stati la classe di attivi d’investimento che si è rivalutata di più.
Niente di tutto questo è scontato anche per il futuro. Il prossimo morso della crisi può essere il più violento, e anche un uomo pacato come l’ex capoeconomista di Deutsche Bank Thomas Meyer sospetta che il peggio non sia alle spalle. Però si tratta di capire perché: com’è possibile che uomini fra i più navigati di Wall Street, economisti fra i più esperti di crisi finanziarie, abbiano tutti preso un abbaglio così vistoso? Sulla base dei grafici, o dei numeri, non avevano torto. Metti quei dati in qualunque computer e il risultato è chiaro: un crac.
Ma quello che non hanno stimato è che l’euro non è fatto solo di numeri ma di uomini e donne con la loro determinazione e forza mentale. La quota di greci che vuole restare nell’euro, al 75%, è molto superiore a quella di chi ha un lavoro. Lo stesso vale quasi ovunque in Europa. Ma questo, visto dalla montagna incantata di Davos, è davvero troppo da capire.


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