Lascia Fischer, il banchiere del miracolo economico
GERUSALEMME — All’economia israeliana affida in eredità anche le nuove banconote, dove per la prima volta saranno impressi i volti di due poetesse. Rachel la pioniera (sui pezzi da 20 shekel) e Leah Goldberg (su quelli da 50), ricordata perché interpreta i sentimenti dei cuori infranti. A essere spezzati sono adesso quelli degli investitori e analisti finanziari che considerano gli otto anni di Stanley Fischer alla guida della Banca centrale la chiave dei successi nazionali. Il governatore lascerà alla fine di giugno, ventiquattro mesi prima della scadenza prevista.
Otto anni cominciati tra le diffidenze. Nel 2005 la maggior parte dei politici e dei commentatori erano indispettiti dal veder reclutare all’estero il capo di una delle istituzioni più importanti. «La nomina è moralmente inaccettabile — scriveva Ari Shavit sul quotidiano Haaretz — una persona non può plasmare il destino di una comunità di cui non ha fatto parte fino ad ora». Non bastavano l’entusiasmo sionista e il volontariato da giovane nel kibbutz Maagan Michael, dove aveva studiato l’ebraico: l’americano (Fischer è nato nell’allora Rhodesia, da lì la famiglia è emigrata negli Stati Uniti) veniva guardato come «un ospite da Manhattan».
La crescita del Prodotto interno lordo del 3 per cento l’anno scorso (del 4,6 nel 2011 e del 5 l’anno prima), l’inflazione rimasta attorno al 2, il calo della disoccupazione al 7 per cento (dall’11 quando aveva accettato l’incarico) hanno contribuito ad ammansire i sospettosi e a esaltare i sostenitori delle sue decisioni, prese nel mezzo della crisi finanziaria globale: tra le più importanti, pretendere la legge che ha separato le banche dai fondi d’investimento. Sever Plocker, prima firma economica del quotidiano più venduto Yedioth Ahronoth, lo considera «insostituibile»: «È un colpo terribile all’economia e un voto di sfiducia per il prossimo turno di Benjamin Netanyahu. Il professore ha deciso di troncare il secondo mandato, perché il premier ha voluto indire le elezioni anticipate senza prima far approvare la finanziaria». Il governo si è ritrovato con il deficit raddoppiato a 39 miliardi di shekel (circa 8 miliardi di euro).
Fischer offre ragioni personali per l’addio: «Voglio stare più vicino ai miei figli e nipoti negli Stati Uniti». Nega che Netanyahu gli avesse offerto il posto di ministro delle Finanze, resta più vago sulla possibilità di rimanere coinvolto nella politica israeliana: «Questa è la mia seconda casa e forse la prima, continuerò a far sentire la mia voce nella vita pubblica». I giornali sostengono che potrebbe accettare il ruolo di ministro degli Esteri: tra i donatori del movimento «Pace adesso», ha mal sopportato in questi anni la mancanza di aperture verso i negoziati, verso il presidente Abu Mazen che considera il leader palestinese più pro-occidentale di sempre.
Israele aveva già rischiato di vederlo partire nel 2011, quando aveva tentato di entrare nella corsa alla guida del Fondo monetario internazionale. Allora gli era stata preferita Christine Lagarde perché troppo anziano (è nato nel 1943), adesso Martin Wolf sul Financial Times lo candida a «nuovi ruoli internazionali, la perdita per Israele può diventare il guadagno per qualcun altro».
Wolf ricorda che Fischer è stato tutore-consigliere di Ben Bernanke, capo della Federal Reserve americana, per la tesi di Ph.D. al Massachusetts Institute of Technology di Boston e negli stessi anni anche di Mario Draghi, governatore della Banca centrale europea. «Il suo approccio non ideologico alle politiche monetarie e alla regolamentazione finanziaria è adesso sapienza convenzionale. Lui è stato saggio abbastanza da vederne la necessità prima della crisi».
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