by Sergio Segio | 19 Gennaio 2013 8:14
“Dossessione”, un neologismo coniato dallo storico Enrico Galavotti. È quella furia ossessiva che ancora oggi — a cent’anni dalla nascita e a diciassette dalla morte — travolge e sfigura il profilo di Giuseppe Dossetti, il leader politico che divenne sacerdote. Veleni e omissioni, aggressioni meditate e altrettanto ponderate rimozioni. Non è sospettabile di reticenza il feroce pamphlet che l’ex arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi ha voluto mandare alle stampe proprio in occasione del centenario (Don Giuseppe Dossetti, Cantagalli editore): se è possibile, ancora più affilato delle critiche mosse dal cardinal Re sul settimanale della diocesi bolognese. Assai poco evangelico il ritratto che ne affiora, una sintesi di giudizi sferzanti già pronunciati in passato. Ideologo inconcludente.
Teologo autodidatta. Storico assai fazioso. Cospiratore nel teatro conciliare voluto da papa Giovanni XXIII. Addirittura autore di un «colpo di mano», con la complicità del suo vescovo Lercaro. E, in conclusione, artefice di uno stile astioso, ereditato dalla sua ampia e poco seria famiglia. Basta così?
Se non è damnatio memoriae, genere in cui si esercitò Gianni Baget Bozzo, può trattarsi di più serafica omissione. A destra come a sinistra. Sia nei palazzi vaticani che in quelli della politica. Tra i tanti pontefici, sacerdoti e anime pie, citati in questi giorni nei santuari della geografia elettorale, sfugge sempre il nome di Dossetti. Eppure alla sua eredità si richiama una componente importante che è quella del cattolicesimo democratico, ben rappresentata nel partito di Bersani. Perché non una parola sul monaco ribelle, protagonista di due eventi fondanti della storia italiana repubblicana, la Costituente e il Concilio Vaticano II?
Forse proprio qui, in queste due pagine ancora incompiute e contestate, è custodita la chiave per penetrare il mistero della “dossessione”, tra incubo e rimozione. Se è facile interpretarla sul versante vaticano, con la frenata opposta alle riforme conciliari da una parte importante delle gerarchie ecclesiali, più complicato farsi largo tra le ostilità della politica, di segno molto diverso. Quella dell’antidossettismo è una storia antica, che risale addirittura a De Gasperi. Ma a noi interessa il capitolo più recente che Galavotti — ora autore per il Mulino di una documentata monografia sul “Professorino” (gli anni tra il 1940 e il 1948) — ha ben ricostruito in un’opera della Treccani. È il capitolo sulla storiografia revanchista che negli anni Novanta, spesso organica a una precisa parte politica, stroncò il dossettismo e tutte le scelte più forti legate a quella esperienza: l’antifascismo, la Resistenza, la Costituzione. È rimasta celebre la battuta con cui il filosofo Nicola Matteucci liquidò nel 1991 il suo intervento contro la partecipazione italiana alla guerra del Golfo. «Aveva taciuto per trent’anni, poteva continuare».
Prevedibile nella destra berlusconiana, può sorprendere il silenzio omissivo nelle file progressiste. Ci aiuta un libro-manifesto scritto in questi giorni da un senatore del Partito democratico, Roberto Di Giovan Paolo, il cui sottotitolo è una dichiarazione di fede: Perché oggi non possiamo non dirci dossettiani. (Dossetti, il dovere della politica, Nutrimenti). «Quella del monaco reggiano è una figura difficile, certo meno rassicurante rispetto a papa Giovanni oggi di moda nei nostri Pantheon esibiti in Tv», dice il parlamentare del Pd. «Dossetti era un magnifico rompiballe, che ancora oggi interroga le coscienze». Di Giovan Paolo evoca le battaglie degli attuali dossettiani per l’immigrazione e l’accoglienza, per le carceri e per i poveri. «Scelte che anche nelle file dei progressisti vengono liquidate come “testimonianza” o come “pauperismo”. Ma che in Dossetti si legavano non solo alle radici costituzionali, ma anche a una precisa idea del ruolo dei partiti dentro la società civile». Né le cose vanno meglio con quei cattolici trincerati «nel ghetto dei valori non negoziabili ». Una formula inaccettabile «per i fedeli laici che si richiamino alla sua lezione». E se il dossettismo è innegabilmente riconosciuto nella formazione di alcuni leader del Pd, Di Giovan Paolo fa notare «la sua scarsa presenza nelle candidature cattoliche ora valorizzate da Bersani. Come se il suo profilo fosse un po’ in ribasso».
Personalità fortemente carismatica, è destinata a suscitare tuttora sentimenti assoluti, passione o ostilità , amore e odio. «Quando cominciai a raccogliere le prime testimonianze», racconta Paolo Pombeni, da quarant’anni studioso della sua figura, «mi imbattei solo in adoratori o in avversari, senza misure intermedie». Come si addice a un percorso esistenziale singolare, anche tormentato, ora efficacemente restituito da Pombeni in Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino). Giurista allievo di Jemolo, partigiano senza mitra, leader politico capace di fronteggiare De Gasperi, intelligente tessitore nel backstage della Costituzione, più tardi la scelta sacerdotale e il ruolo innovatore svolto nel Concilio ed ancora il ritiro monastico, poi l’esilio in Terrasanta, infine l’imprevisto rientro sulla scena pubblica per contrastare l’assalto alla Costituzione. «Era un personaggio atipico, che sfugge a ogni catalogazione», aggiunge lo studioso. «Non era un profeta disarmato, perché sapeva bene come si fa politica, anche da sconfitto. Ed era un irregolare, che agiva mai su mandato ma sempre su propria intuizione». Una figura in sostanza ingovernabile, allora come oggi, «difficilmente spendibile anche per l’idea altissima che nutriva della politica, un’idea sostanziata di moralità ». In altre parole, un’eredità distante da pestilenze e tatticismi dell’evo contemporaneo. «Fu tra i primi a comprendere il fenomeno Berlusconi, anche ricorrendo a toni che allora apparvero eccessivi. In realtà capiva che stava cambiando la cultura di un paese».
Un personaggio assai impegnativo, che qualche problema creò alla sua stessa famiglia culturale. Sul finire degli anni Sessanta, tre erano i candidati alla successione nella guida dell’Istituto per le scienze religiose da lui fondato a Bologna. A Paolo Prodi, Dossetti preferì Giuseppe Alberigo (il terzo era Boris Ulianich), e ancora oggi sopravvive qualche ruggine tra i diversi rami della sua eredità scientifica. Anche nelle file dei dossettiani di stretta osservanza — divisi tra la fondazione bolognese, la comunità della Nunziata e gli eredi di sangue come Giuseppe Dossetti junior — ciascuno se ne ritiene depositario esclusivo. Ma per il centenario, che si celebra il 13 febbraio, si spera che ci sia pace almeno tra gli studiosi nel profluvio di importanti iniziative promosse dal segretario scientifico succeduto ad Alberigo, Alberto Melloni, con la partecipazione del presidente Napolitano (www.fscire.it).
La “dossessione” vi troverà una cura? Forse sì, ma santo mai. Nessuno in Vaticano ne ha mai promosso la canonizzazione. E la sua comunità religiosa, la Piccola famiglia dell’Annunziata, comprensibilmente ne soffre. Sì per Giorgio La Pira, sì per Giuseppe Lazzati — altri due grandi riformatori cristiani — ma per Dossetti non è stato neppure aperto il fascicolo. Né i tuoni lanciati dalla diocesi di Bologna promettono niente in tal senso. Alle critiche antidossettiane del settimanale Bologna Sette, allegato ad Avvenire, ha replicato con severità sulla rivista Il Mulino Luigi Pedrazzi, fondatore dello storico gruppo dei mugnai. Un grave errore della comunità ecclesiale bolognese, lo giudica lo studioso. In fondo è una storia che si ripete. Fu Dossetti a tentare la rivoluzione prima nello Stato e poi nella Chiesa. Fallì in entrambe, almeno in parte, ma c’è ancora chi non glielo perdona. Anche il suo tentativo di dare vita nel ‘48 a un partito cattolico di sinistra — un “giallo politico” indagato da un saggio di Melloni che deve uscire da Donzelli ( Dossetti e l’indicibile) — è insieme un enigma e un problema che si prolunga fino all’oggi. Quando si dice “dossessione”.
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