Lacrime, pugni e ruggiti La «leonessa» Hillary è tornata a combattere
NEW YORK – «Le sue risposte sono inadeguate, ci ha dato giustificazioni insostenibili: le respingo totalmente». Prima l’abbraccio quando Hillary Clinton arriva al Congresso. Poi, però, il senatore repubblicano John McCain, avversario politico del governo Obama ma amico personale della famiglia Clinton, spara a zero durante l’audizione del Segretario di Stato sull’assassinio, a Bengasi, dell’ambasciatore Stevens e di altri tre americani.
Attaccano senza riguardi per il Segretario di Stato convalescente (e uscente), i senatori della destra: Marco Rubio lo fa con diplomazia mentre Ron Johnson del Wisconsin accusa il governo di aver depistato gli americani raccontando all’inizio una storia non vera (l’attacco al consolato Usa come movimento di piazza e non operazione militare di un gruppo terrorista). Poi tocca all’alfiere dei Tea Party, Rand Paul, che rinverdisce la sua fama di radicale affermando che, fosse stato al posto del presidente, avrebbe licenziato la Clinton per incapacità .
Ma Hillary, che ha dovuto rinviare di un mese l’audizione per seri problemi di salute (uno svenimento, una commozione cerebrale, la scoperta di una piccola trombosi) che le sono costati anche un ricovero in ospedale, non è sembrata affatto un’inferma: lucida, vigorosa e combattiva come poche altre volte in passato, ha ribattuto colpo su colpo, costringendo alla fine i suoi accusatori sulla difensiva: una leonessa nell’arena che, pur partendo da una posizione molto debole – le indagini interne hanno messo in luce i molti errori commessi in Libia – ha trascinato sul banco degli imputati gli stessi parlamentari che volevano processarla: «Abbiamo fatto di tutto per aiutare il nuovo governo a prendere davvero il controllo della Libia, ma il Congresso ha risposto coi rinvii alle nostre richieste di sostegni».
Sulla questione chiave – quella della scoperta ritardata della natura terrorista dell’attacco – sulla quale è caduta Susan Rice, l’ambasciatore Usa all’Onu scelta da Obama per succedere alla Clinton, Hillary ha implicitamente preso le distanze dalle dichiarazioni che lei aveva fatto a caldo, dopo l’uccisione di Stevens, l’11 settembre 2012: «Ho avuto subito la sensazione che si trattasse di un attacco preordinato».
Hillary ha detto di non aver letto i cablogrammi nei quali si chiedeva un rafforzamento della sicurezza a Bengasi, ha ricordato, singhiozzando, le ore passate nella base di Andrews, all’arrivo dei corpi delle vittime, abbracciando mogli e figli, ha ammesso che ci sono state carenze informative ed errori di valutazione. Ma ha anche sostenuto con forza che da decenni i diplomatici americani sono sotto attacco in tutto il mondo, che ci sono state molte vittime e che moltissime altre vite sono state salvate.
Arrivata agli ultimi giorni del suo mandato – a giorni, dopo la ratifica parlamentare, si insedierà al suo posto John Kerry – la Clinton ha voluto lasciare un segno forte: non si è sottratta al confronto, ha rivendicato orgogliosamente, dall’alto della sua grande popolarità , di aver fatto di tutto per migliorare la sicurezza della diplomazia americana e ha chiesto un maggior impegno Usa in Nord Africa. Se alla Casa Bianca molti vorrebbero restare in seconda fila, lei lascia un messaggio netto: «Dal Mali all’Algeria si è aperto il vaso di Pandora delle armi trafugate in Libia. E’ una situazione molto pericolosa e il fatto che da qui non siano partiti attacchi verso il territorio americano non significa che ciò non possa accadere in futuro».
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