by Sergio Segio | 3 Gennaio 2013 8:45
NEW YORK — Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato in prima pagina la storia di una trentunenne di Chicago che a un certo punto si è sentita chiedere dal fidanzato: «Ma tu quanto sei solvibile?». Certo, una (deplorevole) distorsione che, forse, non fa media. Ma è anche un segnale, tra mille altri, di come sia filtrata nella vita di ogni giorno la sindrome da «fiscal cliff», da baratro fiscale, segnato dalla propensione collettiva all’indebitamento e, soprattutto, dalla condivisa allergia alle tasse. Eppure gli Stati Uniti, dicono le statistiche dell’Ocse, sono tra i Paesi con la pressione fiscale più bassa del mondo, circa 24% sul prodotto interno lordo. Solo Cile e Messico chiedono meno ai loro cittadini.
Del resto lo slogan «no taxation without representation», niente tasse senza rappresentanza politica, costituisce ancora oggi uno dei fondamenti più solidi della democrazia americana. Le imposte permanenti sul reddito furono introdotte nel 1913 con il sedicesimo emendamento alla Costituzione, quando alla Casa Bianca c’era un presidente democratico Woodrow Wilson. La nuova legislazione, però, era il risultato di una lunga stagione di riforme condotta dai repubblicani «progressisti», guidati da Theodore Roosevelt che per tutta la vita si sforzò di allargare il raggio di azione dell’intervento pubblico. Sembra un paradosso, considerata l’ideologia dei repubblicani di oggi («Stato minimo»). Ma all’epoca le tasse dovevano fornire le risorse per dare forza alla legalità , al progresso ordinato, per tenere a freno l’anarchia di banche e grandi imprenditori (il cosiddetto capitalismo del «Barone ladrone»).
L’altro passaggio chiave è nel 1943. Alla guida degli Stati Uniti c’è un altro Roosevelt, questa volta democratico. Il popolare Franklin Delano Roosevelt che promosse il «New Deal», il nuovo corso per l’America fiaccata dal ’29. E alla fine di questo cammino diventò naturale per Roosevelt allargare la base imponibile, introducendo le «trattenute» sulla busta paga dei lavoratori. In pochi anni gli incassi del fisco balzarono da 7,5 a 43 miliardi di dollari.
Ma il nuovo testamento fiscale comincia nel 1980, con Ronald Reagan alla presidenza. Liberismo e zero Stato (o quasi): un sistema economico centrato sui «produttori di reddito». La corsa al guadagno, l’iniziativa privata creano opportunità e lavoro e dunque vanno favorite in ogni modo. Ecco allora che nel 1981 il Congresso di Washington approva il taglio più netto delle imposte nella storia degli Stati Uniti (via circa 750 miliardi di tasse in sei anni). E da lì comincia la dinamica che stiamo vivendo anche in questi giorni. La linea dei ricavi fiscali si abbassa sempre di più rispetto a quella delle uscite, perché l’anti-statalista Reagan portò a livello record la spesa militare. Il deficit fu coperto solo in piccola parte dalla cancellazione di alcuni benefici fiscali: la quota maggiore si trasformò in debito. Avanti sostanzialmente così anche nei primi anni di Bill Clinton. Neppure il presidente democratico si azzardò ad aumentare le imposte. Anzi. Nel 1993 quando si trovò a fronteggiare un livello di disavanzo ormai vicino all’emergenza, preferì ridurre le spese di 496 miliardi e nel 1997 cavalcò la ripresa economica, sforbiciando i prelievi (compreso quello sui guadagni di Borsa) per 152 miliardi. Le entrate tributarie aumentarono comunque per effetto della crescita.
E quando i repubblicani tornarono con George W. Bush, pensarono di trovare le condizioni ideali per un nuovo e liberatorio abbattimento delle tasse: sconti per 1.300 miliardi di dollari in dieci anni. Sì, quelli che erano in scadenza nel 2012 e che, se non riconfermati, almeno in parte nella notte di Capodanno, avrebbero fatto precipitare gli Stati Uniti nel «fiscal cliff», nel «baratro fiscale». Saranno ancora queste misure a dettare l’agenda fiscale di Barack Obama.
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