La sindrome europea nell’America di Obama

by Sergio Segio | 5 Gennaio 2013 9:15

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È l’Economist, il settimanale politico finanziario più seguito nel mondo, a denunciare in una copertina autorevolmente goliardica e in un’analisi sprezzante, quella eurodegenerazione dell’America che da anni la destra repubblicana denuncia: sinonimo di welfare state, di debiti pubblici, di “tassa e spendi”, di Iva, di diritti acquisiti che segneranno la fine del sogno americano. Nel mismanagement, nella cattiva gestione dell’interesse generale da parte di politicanti e burocrati incapaci di superare i propri recinti ideologici ed egoismi personali.
È stato l’accordo della undicesima ora per evitare il salto nel precipizio fiscale, raggiunto proprio alle 11 esatte dell’ultima notte, a riesumare quell’incubo della involuzione americana verso modelli di assistenzialismo all’europea e di deficit fuori controllo che turba i sonni dei repubblicani. Con una soluzione «che non ha risolto niente», con un compromesso che non ha affrontato il grand bargain, il patto generale e radicale per scalare la montagna dei 16mila miliardi di debiti (otto volte l’Italia), riducendo le spese pubbliche e frenando la crescita dell’imposizione.
COSàŒ la dirigenza politica americana e Obama il gondoliere per primo hanno fatto quello che l’Europa fa da sempre: «Prendere a calci la lattina vuota spingendola avanti», sbuffa l’Economist. Tutti i problemi di fondo, e primi fra tutti lo squilibro strutturale fra introiti e spese del governo federale, rimangono.
Già  in marzo, ricorda l’Economist che da leale organo di stampa britannico detesta l’Europa continentale, l’euro e la sovrastruttura eurocratica, il limite legale dell’indebitamento pubblico raggiungerà  il tetto che, come vuole la legge, soltanto il Parlamento può alzare. In passato, l’innalzamento di questo tetto era un atto di routine, approvato senza clamore. Sotto il regno di Reagan, il (falso) profeta della frugalità  fiscale, la soglia fu elevata per 14 volte in otto anni, in completo silenzio. Ma da quando il Partito repubblicano, ancora in maggioranza alla Camera nonostante le perdite alle ultime elezioni, è stato dirottato dai movimentisti anti- Stato del Tea Party che, come tutti i movimentisti sanno che cosa non vogliono ma non che cosa vogliono, il tetto al debito è diventato una clava per ricattare la Casa Bianca.
Proprio il Tea Party, umiliato dal voto che alza le tasse ai redditi oltre i 450mila dollari anni e viola il dogma del “meno tasse per i ricchi”, cercherà  la propria vendetta estorcendo a Obama tagli sul welfare state per accettare l’autorizzazione a nuovi debiti. Dunque si attendono altri contorcimenti, ricatti, pronunciamenti solenni, accuse, negoziati in buona e mala fede, stridore di denti e profezie di sventura fino all’ultim’ora. Conclusi, prevede l’Economist, con nuove finte soluzione “all’europea”, compromessi, cerotti, espedienti alla Mario Draghi per rimandare la verità , quella che gli europei alla Merkel e Sarkozy non osano dire. Che la struttura dello stato sociale — socialdemocratico o addirittura socialista per i fanatici americani — non regge più e l’Europa non se la può più permettere.
Qui sta il nocciolo radioattivo della discussione e la sostanza politica.
L’Obama in baschetto e il suo principale avversario, il presidente della Camera appena rieletto, Jim Boehner, dipinto in Lederhosen, in braghine di cuoio alla baverese dall’Economist, sono soltanto i “pupi” da copertina di un duello storico e serissimo. La battaglia in corso a Washington non è quella per il tetto del debito, che alla fine sarà  come sempre alzato per non mandare in “default” i buoni del tesoro americani e tagliare il rating. Né sono quei circa tremila e 500 dollari in più all’anno che gli “over 450mila” dovranno versare in tasse sul reddito, contribuendo con un minuscolo e simbolico aumento dello 0,3 per cento alle casse del fisco federale.
La battaglia apocalittica, risponde il venerabile Paul Krugman oggi ascoltatissimo e citatissimo, è fra due concezioni diverse e opposte della società  americana. Il deficit è un finto problema, essendo in dollari, dunque in moneta controllata pienamente dal governo e dalla Fed. Si vuole demolire l’America ereditata dal
New Deal di Roosevelt e poi ampliata dalla Grande Società  di Lyndon Johnson, che ha creato la Sicurezza Sociale, le pensioni di anzianità  pubbliche, i sussidi di disoccupazione, la sanità  per i vecchi e per i minorenni più poveri e la prima riforma sanitaria universale mai vista, la “Obamacare”. E riesumare, al suo posto, l’America
pura e dura, quella soltanto accarezzata da Reagan ma ora portata con virulenza movimentista dai “Taliban” del Tea Party, che vedono nello stato il problema e nella spesa pubblica la normalizzazione dell’eccezionalismo Usa verso modelli europei. “Bruxelles sul Potomac”, appunto.
È un confronto scritto nella natura stessa della società  americana, nella dialettica fra i fautori dello “stato di natura”, dove il più forte prevale a beneficio della crescita di tutti e dello “stato solidale”, dove nessuno cresce se non cresce il più piccolo fra di noi. Ai progressisti resta da risolvere il problema di come pagare per i più piccoli, quando il debito sprofonda e lo stato sociale è pagato con la carta di credito del governo. Ai conservatori, resta da conciliare il sogno del darwinismo capitalista con le migliaia di miliardi pubblici — dunque anche soldi dei più piccoli — rovesciati nella casse della banche private per salvarle. E non tutti sono convinti, come l’economista Bruce Bartlett scrive su Forbes, che un qualsiasi cittadino europeo viva in condizioni peggiori del proprio equivalente americano. Con un’aliquota massima del 39,5 per cento sui grandi redditi, la strada verso la fiscalità  europea è ancora molto lunga e i Depardieu americani possono riposare sereni.

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