by Sergio Segio | 16 Gennaio 2013 8:37
E un’altra procedura è aperta alla Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Era quello che quasi tutti si aspettavano, e quasi tutti si aspettano che la stessa risposta venga oggi dalla gip Patrizia Todisco, sicché il prodotto che l’Ilva vorrebbe dissequestrare e smerciare – un milione e 700 mila tonnellate per un valore dichiarato di un miliardo di euro – resterà sotto sequestro. Salva l’eventualità che le merci giacenti (in capannoni o alle intemperie, dove si arrugginiscono) vengano sì dissequestrate, ma per essere affidate ai custodi giudiziari e commercializzate così da devolverne il ricavo alla mitica bonifica: questione ulteriormente complicata dall’arrivo delle nuove figure, il garante per l’attuazione del decreto, l’ex Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, e il commissario per le bonifiche, il capo dei Vigili del fuoco Alfio Pini. Se non si trattasse di una questione di vita e di morte, ci si potrebbe arrovellare attorno ai paradossi del caso: è nato prima il decreto o il sequestro, morirà prima il custode o il garante? Lunedì, nel tentativo di addomesticare un’assemblea spontanea di operai in cassa integrazione alla porta della direzione, un navigato sindacalista Uilm diceva: «La nostra linea resta quella: la magistratura deve fare un passo indietro». Strana linea sindacale, tentativo fallito. Ieri invece un centinaio di quegli operai ha educatamente scavalcato i tornelli ed è entrato in fabbrica, dove ha incontrato il capo del personale, Martino, il quale ha detto: «Siamo al capolinea: sono molto pessimista sul futuro». Sapessi noi, hanno pensato gli operai. Lunedì l’Ilva aveva fatto sapere che il protrarsi del sequestro è già costato la disdetta di una commessa per 25 milioni di dollari di tubi da oleodotto da parte di un’azienda dell’Oklahoma. L’Ilva sta per mettere in cassa integrazione altre 700 persone – 200 da oggi –, che si aggiungono ai 2400 che già ci si trovano, e minaccia di non pagare i salari il prossimo 12 febbraio. Quelli di gennaio hanno superato di qualche spicciolo gli 800 euro. «Fanno 1000 con gli assegni – mi dice Gregorio I., operaio dell’area “a freddo” – così ripartiti: 450 per la casa, 200 di bollette, e il resto per mia moglie, che purtroppo non sta bene, e per la nostra bambina». Sembra un gioco dei cinque cantoni: l’Ilva, il governo, la magistratura, i lavoratori, la città . In realtà le divisioni e i ricatti, più o meno deliberati, si moltiplicano. Gli operai in cassa integrazione contrapposti a quelli che lavorano. Gli operai di Taranto contrapposti a quelli di Genova o di Novi. E così via. Ieri se ne aveva una dimostrazione dolorosa rispetto a una ditta, la Semat, incaricata della manutenzione dei convertitori, con la qualifica edile: 105 dei suoi 400 dipendenti, messi in cassa integrazione la sera prima, occupavano la strada, mentre i loro compagni scioperavano all’interno. «L’Ilva ci mette fuori, e mette dentro al nostro posto operai giovani che noi abbiamo formato: ci mette gli uni contro gli altri, noi con i nostri cinquant’anni che non sono più buoni per faticare e non lo sono ancora per la pensione – cioè non sono più buoni per vivere – e loro con contratti a scadenza ravvicinata, via via rinnovati con una giostra di sigle di comodo ». Un Edipo manovrato: figli che fanno fuori i padri non ancora vecchi, e non ne ricevono in cambio un regno e una regina, ma un contratto a termine di dodici giorni o anche meno – rinnovabili a piacere.
La siderurgia italiana è a questo punto: l’Ilva a Taranto è in bilico, e nella migliore delle ipotesi ci resterà a lungo. La inevitabile riduzione dell’Ilva dovrebbe spingere a rafforzare il recupero di Piombino, dove la ex Lucchini ha anche lei appena avuto il commissario governativo, Piero Nardi, un esperto manager. Piombino era rifornita in parte di coke da Trieste, che è agli sgoccioli. A sua volta, Genova dipende da Taranto, che è in bilico. Nella divisione del lavoro, Genova Cornigliano si liberò delle lavorazioni più nocive, cokeria e agglomerazione, relegandole a Taranto, e Piombino lo stesso, relegandole a Trieste. Ora il circolo vizioso si stringe. È probabile che tutto vada in malora per inerzia, per una cospirazione di inerzie. Se no, occorrerebbe un piano siderurgico nazionale. In verità occorrerebbe un piano europeo, che distribuisse razionalmente la produzione dove può essere efficiente, e guidasse (e cofinanziasse) la riconversione dov’è una scelta obbligata dalla difesa della salute e dell’ambiente. Questo rischia di evocare la “pianificazione socialista” di stampo sovietico? Mah. In Francia, dove il problema aveva una dimensione assai più ridotta che da noi, la crisi di Arcelor Mittal a Florange ha aperto (e rapidamente richiuso) una discussione sulla nazionalizzazione. Il suo proponente, Arnaud Montebourg, titolare di un ministero dall’incoraggiante titolo di “raddrizzamento (risanamento) produttivo”, aveva non poche ragioni, ma si guardava dal disegnare un contesto europeo ed europeista, e coloriva di nazionalismo la sua proposta – del resto snobbatissima. In Italia, dovremmo riconoscere che una “nazionalizzazione”, una “statalizzazione” drammaticamente sui generis è avvenuta, col carcere ai Riva, i prodotti sequestrati e il “custode” all’Ilva, e il commissariato governativo alla ex Lucchini. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio, che aveva anticipato l’Unione, si sciolse nel 2002. Non c’è una politica industriale comune, non c’è una politica di difesa comune. Le cose succedono: una smobilitazione industriale qua, un interventino in Mali là . Se le cose invece di succedere fossero governate, e governate da quell’altra Europa che in tanti dicono di volere, sarebbe bello: come camminare sui piedi invece che sulla testa, come camminare invece di sprofondare.
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