by Sergio Segio | 28 Gennaio 2013 8:30
Una dispersione che qualcuno «in alto» ha cercato di evitare con l’endorsement all’attuale premier ma che, dopo lo spazio di un mattino, ha ripreso a produrre i suoi effetti, e tutti gli interessati si sono affannati ad accasarsi nella squadra che contava e/o offriva di più. L’appartenenza cattolica è diventata un elemento del curriculum individuale, non il riferimento a un’anima collettiva di proposta politica.
È fin troppo moralistico dare la colpa di tutto ciò alle singole furbizie di posizionamento. Piuttosto la ragione va attribuita a una debolezza culturale profonda: il mondo cattolico, malgrado la sua antica fama di antistatalismo, è forse il più fedele seguace della centralità e della sovranità dello Stato; della sua titolarità esclusiva a perseguire il bene comune; dell’importanza della funzione politica che lo gestisce; della dinamica elettorale che quella funzione alimenta e certifica. Sta quindi in questa complessa adesione al primato dello Stato la base della debolezza politica del mondo cattolico.
Eppure tutti vediamo bene che lo Stato-centrismo è in crisi dappertutto e che il mondo va verso una logica squisitamente policentrica del potere, solo che si ricordi la crisi degli stati nazionali e della loro sovranità ; la crescita di poteri sovranazionali non riconducibili a strutture sovrastatuali (la Ue e l’Onu); la forza dei flussi (monetari, di popolazione, di culture) rispetto ai luoghi della sovranità ; il peso crescente di poteri destrutturati, (ultimi i tuareg e le tribù africane) rispetto ai poteri magari militari degli Stati; il crescente potere logistico, finanziario e politico delle trenta grandi metropoli planetarie (da Londra a Shanghai); tutto fa prevedere che nei prossimi decenni il potere non sarà più degli stati nazionali, ma di nuove e plurime sedi di responsabilità .
Se qualche volta ci ricordassimo, cattolici e laici, che il cristianesimo non è solo una religione ma una realtà che è stata storicamente partecipe della nascita e della scomparsa di interi mondi, allora dovremmo poterne riconoscere il ruolo nel coltivare i riflessi anche italiani dei citati processi di crescente de-statalizzazione e di crescente policentrismo dei poteri. Ed invece restiamo provinciali sostenitori del primato dello Stato; laicamente obbedienti a tenere la religione circoscritta nella sfera privata e fuori della dinamica statuale; affezionati all’impiego statale; devoti al Welfare State che copre i nostri bisogni sociali; assuefatti all’idea che solo lo Stato è titolare del perseguimento del bene comune; e tutti quindi occupati oggi a capire quali forze politiche lo occuperanno e guideranno; e chi simbolicamente lo impersonificherà come Capo dello Stato.
In cotanto antropologico statalismo (certo non compensato dal riferimento a una fantomatica «società civile») il mondo cattolico sembra purtroppo vivere bene, senza troppe preoccupazioni per quel bene comune che a parole dice di perseguire. Vede la povertà del contesto, ma non ha la visione sociopolitica necessaria per andare oltre; e se l’avesse avrebbe paura delle potenziali accuse di fondamentalismo; per cui si premunisce disperdendosi un po’ in tutte le formazioni che vanno alle elezioni; tirando un po’ a campare, ma promettendo che si mobiliterà se e quando saranno in pericolo i cosiddetti valori non negoziabili.
In questa non entusiasmante prospettiva a breve termine, forse sarebbe stato più utile «saltare il turno» delle elezioni di febbraio e prepararsi alla prossima volta, facendo maturare quella unitaria capacità di discernimento e proposta che oggi non risulta in gioco.
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