by Sergio Segio | 10 Gennaio 2013 7:42
CARACAS. «Vedi, per tre anni sono stata rinchiusa qui, in questa parte della prigione andata distrutta. Qui mettevano le donne, nell’altra ala gli uomini». Raquel Castro è un’elegante signora che conserva il piglio dei vent’anni. Vicino a lei, Monica Venegas e alcuni uomini di età diversa: Idulfo Rojas (detenuto per 10 anni), José Nanez (per 14), Enrique Velasquez (per 12), Paul del Rio (3,5 anni)… Militanti di varie formazioni armate che hanno animato le guerriglie degli anni ’60 e ’70 in Venezuela: Bandera Rojas, Fuerzas Armadas de Liberacià³n Nacional (Fanl), Punto Cero… Oppositori ai governi nati dal Patto di Punto Fijo, che si sono succeduti dopo la caduta del dittatore Perez Jimenez, nel 1958, e l’arrivo al potere di Romulo Betancourt.
«Betancourt – afferma l’opinionista e poeta Nestor Francia, autore di molti libri su quegli anni – è stato convinto a tradire le promesse con cui era stato eletto, ha accettato di sottostare alle direttive del Dipartimento di stato Usa. Ha assunto l’incarico il 13 febbraio del ’59 e il 4 agosto dello stesso anno, una manifestazione di disoccupati che chiedeva lavoro venne massacrata nella piazza La Concordia. Per terra rimasero 4 morti e 17 feriti. Allora Betancourt decise di dar corso allo slogan: prima sparare e poi domandare». Allora, ministro degli Interni era Carlos Andres Pérez, che anni dopo – nell’89 – farà sparare sulla folla che protestava per il carovita (il Caracazo).
In uno scorcio di giornata intriso di pioggia, gli ex prigionieri politici della IV Repubblica accolgono i visitatori nelle loro antiche celle del Cuartel San Carlo, oggi convertito in museo storico nazionale. Una imponente costruzione militare coloniale, edificata nel 1787 per ordine dell’allora governatore della Provincia del Venezuela, Don Luis de Unzagay Amenzaga, preoccupato per le possibili invasioni inglesi, essendo questa zona l’entrata naturale a Caracas dal Mar dei Caraibi. Siamo nel quartiere di Altagracia, nel Municipio Libertador.
I lampi filtrano tra le sbarre verdi, gettando una luce sinistra in questa struttura rettangolare, fornita di muri larghi 100 metri per ogni lato e garitte in ogni angolo. Un edificio a due piani, provvisto di un ampio cortile interno, dove ora giocano i bambini: gli ultimi sfollati delle alluvioni del 2010, accampati nel piano di sotto in attesa di ricevere in assegnazione una casa nuova. I militanti del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv), impegnati nelle Misiones, si prodigano per organizzare al meglio le giornate dei profughi.
Al piano di sopra, documenti d’archivio, bandiere, una bacheca con gli ultimi articoli che documentano l’attività della Fundacià³n Capitan de Navào Ponte Rodràguez. Paul del Rio è uno di quelli che l’ha fondata, sette anni fa, e ne è il presidente: «Questo posto – racconta – sarebbe stato distrutto, stava andando in malora, durante il governo Chà¡vez un giorno lo abbiamo occupato e poi ci è stato dato in gestione. Da allora si è rimesso in moto un processo di recupero della memoria a partire da un luogo simbolo».
Un percorso non senza frizioni che ha portato anche una multa a un sincero progressista come José Manuel Rodriguez, allora presidente dell’Istituto del patrimonio culturale. Rodriguez aveva iniziato i lavori di scavo nell’antico perimetro delle mura, distruggendo però così «la memoria recente» ed era incorso nelle ire dell’allora presidente della Corte dei Conti, Clodovaldo Russian, che in quel carcere aveva trascorso diversi anni.
Quello della lotta armata ai governi «puntofijisti» – definite «democrazie camuffate» – costituisce uno dei filoni confluiti nel «proceso bolivariano» di Hugo Chà¡vez. La legge contro l’oblìo, approvata dal Parlamento nel 2011 dopo ampie consultazioni popolari, si propone di sanzionare «i crimini, le scomparse, le torture e altre violazioni dei diritti umani per ragioni politiche nel periodo tra il 1958 e il 1999». I suoi capitoli pongono in modo diretto e senza vittimismi la necessità di «rivendicare le lotte popolari e revoluzionarie del popolo venezuelano durante il periodo storico dal 1958 al 1998, compreso le azioni civico-militari note come El Porteà±azo, El Carupanazo, El Caracazo, El 4 de febrero e 27 de noviembre del 1992 (le ribellioni dei militari progressisti guidati da Chà¡vez, ndr) e i suoi protagonisti». Allo stesso modo- continua il capitolo della legge sulla Memoria storica – «lo Stato riconoscerà le azioni realizzate dagli operai, operaie, studenti, contadini, contadine e intellettuali in difesa della sovranità , la democrazia popolare, la liberazione nazionale e il socialismo, e quelle contro il terrorismo di stato e l’intervento di governi stranieri».
Sulla guerriglia degli anni ’60-70 (la prima in America latina dopo la rivoluzione cubana) e sui metodi usati dalle democrazie di allora esiste in Venezuela una cospicua letteratura. E alla commissione contro l’Oblio, già al lavoro, sono arrivate molte denunce documentate. Una di queste riguarda la scomparsa dello studente Alejandro Tejero Cuenca, raccontata dalla sorella Maite in un libro dedicato alla madre, Angelica, che non ha mai smesso di cercare il figlio. Majte Tejero, avvocata, è una delle fondatrici dell’Associazione bolivariana contro il silenzio e l’oblìo (Abconsol), che ha contribuito a realizzare la legge.
Racconta che il fratello, attivo nei movimenti studenteschi, scomparve in una caserma della polizia politica l’11 maggio del ’67. Allora era presidente della repubblica Raul Leoni, considerato «il presidente buono». L’altra faccia dei governi puntofijisti – scrive l’ex vicepresidente del Venezuela, José Vincente Rangel nella prefazione al libro di Tejero – era «il terrorismo di stato, pur nel segno della democrazia rappresentativa. Allora, l’obbrobriosa figura repressiva del desaparecido venne sperimentata per la prima volta nel nostro paese da funzionari sia civili che militari allenati alla Scuola delle Americhe degli Stati uniti». Il Venezuela del Pacto de Punto Fijo – aggiunge Rangel – all’epoca «era considerato un esempio impeccabile di democrazia, invece venne usato come laboratorio per sperimentare le più abiette e inumane pratiche repressive, a cominciare dall’istituzione di un regime detentivo che comprendeva la prigionia per ogni sospetto di attività politica contraria al governo e l’entrata in un merccanismo in cui si torturava, si isolava, si privava il detenuto del dovuto processo e, all’occorrenza, lo si assassinava».
Un racconto condiviso anche dagli ex detenuti come Paul del Rio, che ci accompagna nelle celle dell’ex prigione. Un nome noto, quello di del Rio, ieri come imprendibile giovane guerrigliero delle Fanl, oggi come pittore e artista plastico. «Sono io – dice – che ho disegnato il sarcofago di Bolivar, dopo la riesumazione dei resti». Paul nasce all’Avana nel 1943 da genitori spagnoli, militanti della Federazione anarchica iberica (Fai) e della Confederacion nacional del trabajo (Cnt): esuli a Cuba per sfuggire alla pena di morte e poi in Venezuela per scampare al regime di Batista. Il 24 agosto del ’63, il suo nome di battaglia, Maximo Canales, diviene noto al mondo per via del sequestro del calciatore del Real Madrid, Alfredo Di Stefano, detto la Saeta Rubia, allora in trasferta in Venezuela.
«Un’operazione mediatica – afferma oggi del Rio – dedicata a Julià¡n Grimau, un dirigente comunista spagnolo fucilato dal regime franchista quattro mesi prima. Volevamo far conoscere il vero volto di quelle “democrazie”: che torturavano, rapivano, reprimevano studenti e contadini. Arrivare al Cuartel San Carlos era già un passo avanti, voleva dire che eri sopravvissuto: perché in quegli anni operava anche il Servizio segreto delle forze armate, il Sifa, che praticava la tortura, fino alla morte. Quei regimi hanno ucciso oltre 3.000 persone, molte delle quali non avevano imbracciato le armi. Crimini impuniti». Paul del Rio ha la fortuna di essere arrestato molto tempo dopo, il sequestro di cui lo accusano è caduto in prescrizione. Prende una condanna mite, tre anni e mezzo, e poi esce, ma non dimentica gli ideali di quella stagione, né i compagni caduti o scomparsi.
Finché, intorno alla Fondazione, si riuniscono i famigliari delle vittime e dei desaparecidos per chiedere al governo una Legge contro l’oblìo. Monica Venegas, oggi affermata docente di psicologia, fa anche parte del Fronte sociale dei famigliari e amici degli uccisi, torturati e degli scomparsi per motivi politici durante il periodo 1958-1998. Nata in Cile, ma nazionalizzata venezuelana, è stata la moglie di un guerrigliero, poi morto di cancro all’Avana. «Il mio secondo compagno – racconta ora – è stato preso per strada. Durante un conflitto a fuoco, per salvarmi la vita ha ricevuto i colpi destinati a me. È stato portato in uno dei centri clandestini antiguerriglia, chiamati Teatro di operazioni (To). Campi di concentramento improvvisati al di fuori delle leggi e delle disposizioni costituzionali. Lì dentro non risultavi detenuto, ma sequestrato. Secondo documenti e testimonianze, c’erano 5 To: nello stato Falcon, Monagas, Lara, Sucre, Yaracuy. Prima di arrivare al San Carlos, anch’io sono rimasta mesi in qualche caserma militare. Una volta in carcere, sono cominciate le pressioni psicologiche. Mio figlio piccolo doveva subire una delicata operazione al cuore e non mi hanno permesso di incontrarlo».
In quelle operazioni di controguerriglia – dicono i famigliari degli scomparsi – furono coinvolti anche militari che oggi appoggiano il socialismo bolivariano, e puntano il dito su alcune figure che rivestono anche ruoli parlamentari: non tanto – affermano – per portarlo in tribunale, ma per consentire un giudizio storico. Tantopiù che, come scrive Majte Tejero a nome dell’associazione, «oggi abbiamo chiaro, in gran parte grazie al presidente Chà¡vez, che il nemico bisogna vincerlo con altri metodi. Soprattutto con la lotta per la pace, ma anche con principi fermi».
«Un militare coinvolto in un massacro di guerriglieri – ci ha spiegato l’attuale ministro per l’energia elettrica Hector Navarro, che ha lavorato al recupero della memoria storica – allora era un giovane ufficiale a cui hanno chiesto di bombardare senza dirgli di cosa si trattava. Oggi è un bravo compagno, un marxista. La nostra rivoluzione è in grado di comprendere che le persone possono cambiare».
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Il movimento bolivariano unisce la sinistra italiana
Mentre nel mondo si moltiplicano gli attestati di solidarietà al presidente Chà¡vez, in forma di appelli, incontri o manifestazioni – come quella che si è tenuta ieri in Argentina – anche in Italia sembra modificarsi la percezione della figura di Chà¡vez, almeno in una parte della sinistra italiana: non più il «caudillo», «il militare» di cui diffidare, ma un uomo politico progressista – «un socialista umanista» come ama definirsi -, che ha innescato un processo di cambiamento a favore delle classi popolari. Sono stati in molti a riflettere in questo senso, di recente, di fronte a un piccolo miracolo di «unità a sinistra» realizzato nell’auletta parlamentare a seguito di un invito «a tutto campo» rivolto dall’ambasciatore del Venezuela in Italia, Isaias Rodriguez, a cui hanno risposto – coordinati da Alfredo Viloria – rappresentanti di quasi tutte le forze politiche della sinistra italiana.
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