“La riservatezza del Quirinale è assoluta dai giudici di Palermo aperto un vulnus”

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ROMA — S’era già  capito, il 4 dicembre, che Napolitano aveva stravinto sui pm di Palermo. Quel giorno, dalla Consulta, era uscito un verdetto che aveva ghiacciato Ingroia e i suoi. Sulle quattro intercettazioni tra il capo dello Stato e l’ex ministro Mancino i magistrati avevano sbagliato. Avrebbero dovuto consegnarle al giudice per distruggerle. Il ricorso del presidente alla Corte non solo era ampiamente ammissibile, ma anche fondato. Poco più di un mese dopo, le 49 pagine che motivano la sentenza — scritte dall’avvocato Giuseppe Frigo e dal costituzionalista Gaetano Silvestri, il primo indicato dal centrodestra, il secondo dal centrosinistra — mettono il timbro sulla vittoria di Napolitano. Ai pm non resta che «distruggere subito» quelle telefonate. Toccherà  al gip farlo, seguendo le regole dell’articolo 271 del codice di procedura penale, senza quella procedura camerale che l’accusa ipotizzava e che avrebbe rischiato di rendere pubblici gli ascolti. Sarebbe stato un «vulnus» alla figura del presidente di portata epocale.
Bisogna partire da qui, dalla Carta, per capire la scelta della Consulta. Che al Colle viene accolta come il sigillo a quanto il Colle medesimo sosteneva. Il giudizio di Antonio Ingroia, ieri procuratore aggiunto a Palermo e oggi candidato premier di Rivoluzione civile è opposto. Per lui «la sentenza apre a un ampliamento delle prerogative del capo dello stato, mettendo a rischio l’equilibrio dei poteri». L’ex procuratore antimafia Piero Grasso, candidato del Pd, invece parla di pagine «che fanno chiarezza senza ledere le prerogative di nessun potere».
La Costituzione dunque. La Carta alla cui luce «interpretare le leggi ordinarie, e non viceversa» perché essa «contiene in sé principi e regole che s’impongono su altre fonti». Posto l’assunto, ne consegue il primo corollario: «È dovere del giudice attribuire a ogni singola norma il significato più aderente a quelle costituzionali». S’annida qui, per la Corte, il baco che ha tradito Palermo. Perché i pm non hanno valutato appieno il valore che nella Costituzione ha il presidente. Il quale «è collocato al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato», «è garante dell’equilibrio costituzionale», «deve tessere costantemente una rete di accordi per armonizzare conflitti e asprezze», fa «un uso discreto del potere di persuasione», la famosa moral suasion.
Se tutto questo sta nella Costituzione «efficacia e praticabilità  delle funzioni di raccordo e persuasione sarebbero inevitabilmente compromesse dall’indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi ». La Consulta è perentoria: «Discrezione e riservatezza delle comunicazioni del presidente sono coessenziali al suo ruolo nell’ordinamento costituzionale». Egli «deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle comunicazioni, non in rapporto a una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte».
Che accadrebbe se una sua telefonata venisse svelata? Qui sta il «vulnus». «La propalazione dei colloqui sarebbe estremamente dannosa non solo per la sua figura e le sue funzioni, ma per il sistema costituzionale complessivo». Qui, per la Corte, sono caduti i pm di Palermo quando hanno cercato la singola norma che dicesse cosa fare di un’intercettazione casuale, senza valutare il quadro complessivo e soprattutto «l’intangibilità » del presidente e delle sue conversazioni in qualunque sfera si svolgano, siano politiche, riguardino l’attività  del Csm o delle forze armate. «Improponibile qualunque analogia» tra presidente e parlamentari. Non vi è «lacuna» nelle norme, bensì l’assenza di regole sulle intercettazioni conferma che il presidente non è mai intercettabile. Né «assume rilevanza la distinzione tra ascolti diretti, indiretti e casuali».
Deriva da qui, adesso, «l’obbligo di distruggere nel più breve tempo possibile le registrazioni del presidente». Dovrà  essere fatto «sotto il controllo del giudice non essendo ammissibile che vi provveda unilateralmente il pm» (come pure aveva chiesto il Colle). In ogni caso, «è esclusa una procedurale camerale partecipata » perché ciò aprirebbe la via a una fuga di notizie, il «vulnus» più grave. Che, ricorda Ingroia, «non è mai avvenuta».


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