La proprietà  privata e i beni comuni

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Poco prima dell’apertura, una tavola rotonda sulla società  dei beni comuni, con Paolo Cacciari, Sandro Medici e Marco Bersani, giunge da Roma notizia dello sgombero dello Scup, un luogo in cui la prassi beni-comunista ormai da mesi generava spazi di welfare dal basso. Nelle stesse ore a Torino si risponde idealmente con l’occupazione della sede dell’ Ato3 in Via Lagrange da parte dei Comitati per l’acqua bene comune. Da qualche settimana a Messina è inoltre occupato il teatro Pinelli e anche lì, nelle stesse ore della due giorni pisana, si stanno svolgendo momenti assembleari partecipati da delegazioni provenienti un po’ da tutta Italia per inventare una giuridicità  capace di difendere anche questa occupazione.
Sul tavolo della discussione intorno alla funzione sociale, cui oltre al sottoscritto, partecipano oggi alle 17.30 Luca Nivarra e Maria Rosaria Marella, giungono dunque, un po’ da tutta Italia, nuovi elementi di realtà . Sono la materia prima con cui da qualche tempo si confronta la cultura civilistica di sinistra. Un materiale costituente, come tale certamente contrario all’ordine formale costituito, che taluni giuristi tentano di tradurre in “ordinamento” pluralista aperto e informato a principii più alti, ben poco realizzati, contenuti nella nostra Costituzione economica. In particolare è l’Art. 42 quello in cui la Carta fondamentale del ’48 dà  mandato al diritto di determinare modi d’acquisto, godimento e i limiti della proprietà  privata al fine di renderla «accessibile a tutti» e garantirne la «funzione sociale».
Il dibattito si preannuncia di particolare interesse perché costituisce una nuova occasione di confronto fra quanti a sinistra sostengono ormai apertamente la tesi per cui la Costituzione del ’48 è morta ( e Nivarra proprio sulle pagine di questo giornale ha corroborato la posizione del Collettivo UniNomade) e quanti viceversa pensano che le frontiere teoriche aperte dal “beni-comunismo giuridico” da un lato restituiscano attualità  ad un fraseggio costituzionale mai davvero realizzato ( e quindi mai costituito), e dall’altra non possano privarsi di uno scudo testuale tanto poderoso (si pensi dal ultimo alla sentenza 1992012 della Corte Costituzionale) quanto (meritatamente o immeritatamente poco importa) ancora dotato di popolarità  e potenziale evocativo.
La civilistica italiana ha discusso a fondo di funzione sociale della proprietà  privata in due fasi ben diverse, nessuna delle quali legata direttamente alla formulazione testuale dell’Art. 42 Cost. Una prima volta intorno alla metà  degli anni Trenta, il tema fu messo sul tavolo in vista della codificazione civile del 1942, nell’ambito della riflessione sulla concezione fascista della proprietà  privata. I proponenti, principalmente legati al socialismo delle cattedre, furono sconfitti dall’opposizione liberale e da quella fascista, la prima preoccupata per l’indebolimento e la seconda per il rafforzamento dell’individuo proprietario che deriva dal responsabilizzarlo come un “funzionario sociale”. La nozione riuscì invece a entrare in Costituzione senza un dibattito particolarmente approfondito perché gradita tanto ai socialisti quanto ai cattolico- sociali che trovavano giustamente criticabile tanto l’individualismo liberale borghese quanto lo statalismo autoritario fascista.
La dottrina civilistica avrebbe poi ripreso la riflessione a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto grazie al lavoro di Rodotà , motivata in particolare dalla giurisprudenza reazionaria della Corte Costituzionale. Essa in quegli anni agiva come baluardo della rendita fondiaria finalmente sotto attacco da un parlamento capace di dar seguito normativo a movimenti sociali dotati di una forza mai più ripetutasi in Occidente. Il dibattito sulla funzione sociale fu abbandonato dagli anni Ottanta e la rendita fondiaria da allora non è più stata messa in discussione, pur in presenza del disastro sociale che essa comporta.
Oggi finalmente si torna a parlarne, in un dialogo senza precedenti fra dottrina giuridica e movimenti sociali che dalla Commissione Rodotà  (2008) in poi non si è più interrotto. Esso ha trovato nel referendum sui beni comuni e nei suoi esiti napoletani, ma soprattutto nella prassi costituente della Fondazione Teatro Valle, i suoi momenti di maggior fecondità . I luoghi occupati sono, per questo sol fatto, costituenti di un nuovo ordine proprietario che sfida anche fisicamente l’accumulo fine a sé stesso e lo spreco sociale che ne consegue (la giurisprudenza possessoria intorno al Cinema Palazzo è da questo punto di vista magistrale). Si tratta di un segno di grande maturità  politica che proprio dalle occupazioni “illegali” ma “costituzionalmente legittime” venga riaperto un dibattito giuridico che si è dimostrato cruciale in passato e che può tornare ad esserlo ora.
Mentre la tragica confusione fra legalismo giustizialista e sinistra rende impossibile riaprire il dialogo genuino fra movimenti e rappresentanza, è essenziale che chi si batte per il potere costituente dei beni comuni sappia ben distinguere fra legalità  formale e uso contro-egemonico del diritto. Solo così si possono ricreare e difendere gli spazi comuni negati dal cinismo della politica del Palazzo. Mentre a Pisa riparte la riflessione teorica, al teatro Valle stiamo ultimando i preparativi per far ripartire il lavoro sui beni comuni della Commissione Rodotà . I movimenti per i beni comuni devono ricordare al prossimo parlamento del suo dovere di mettere in votazione la Legge Delega sulla riforma della proprietà  pubblica, che il Pd aveva incardinato oltre quattro anni fa quando era minoranza e per la quale Vendola si è già  pubblicamente impegnato.


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