La nuvola di Pechino

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PECHINO. C’è davvero qualcosa nell’aria se il potere di Pechino osa infine l’inaudito: vietare gli “yangrou chuan”, gli adorati spiedini, che giorno e notte sfrigolano sopra griglie improvvisate lungo ogni strada del Paese. Leccornie popolari, per tasche di massa, imputate ora di una colpa imperdonabile: dopo secoli, il governo della seconda economia del mondo ha scoperto che, arrostendo sul carbone, inquinano. Si cela spesso del comico, nel tragico. E così, per impedire che un numero troppo imbarazzante di cinesi crepi a causa dello smog, assieme al bando contro il barbecue sbucano dalle nebbie metropolitane altre due singolari esortazioni: impedire agli scolari di passare la ricreazione in cortile e fare in modo che gli anziani, tappati in casa, non respirino vicino alle finestre. Chi possa verificare il rispetto di simili ingiunzioni, tanto più dentro un polverone che da giorni riduce la visibilità  a meno di sessanta metri, in Cina ognuno lo sa: nessuno.
Ma le griglie costrette a spegnersi, come i bambini chiusi in classe e gli altri esseri viventi impegnati a contendersi le ultime maschere anti-gas, rivelano improvvisamente alla nazione che si sta prendendo il secolo, una parte essenziale di ciò che continua a significare il successo di quell’aspirazione che convenzionalmente chiamiamo crescita: il sacrificio della vita di chi viene incaricato di promuoverla. Non occorrevano del resto i dati impressionanti delle centraline, per suggerire ai cinesi che inalare aria è ormai «una necessità  inadatta alla salute umana». Da dieci giorni Pechino, Shanghai, Chongqing e decine di metropoli industriali risultano scomparse dentro nuvole nere, grasse di olii che impregnano i capelli, di acidi che corrodono la gola e di polveri che bruciano gli occhi. Lo smog, che fino all’anno scorso le autorità  chiamavano nebbia, è tale che centinaia di voli vengono cancellati per “invisibilità  della pista”. Il muro tossico è causa di maxi-tamponamenti anche quando un disco grigio all’orizzonte indica che il cielo di per sé sarebbe sereno e nello Zhejiang per tre ore le fiamme hanno incenerito una fabbrica di mobili senza che nessuno potesse distinguere il fumo dall’aria.
L’altra faccia del cosiddetto sviluppo, in Cina come nel resto dell’Asia, è questa: quei lapilli che i tecnici indicano con l’asettica sigla PM2,5, ossia il particolato mefitico di un diametro fino a 2,5 micron, a Pechino hanno raggiunto la vetta inviolata di 993 microgrammi per metro cubo. È una quota quaranta volta superiore al limite massimo stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità , settantacinque volte più alta dei limiti imposti negli Usa. Gli scienziati avvertono che per non deteriorare la salute, la concentrazione di queste particelle deve restare sotto il livello
venti. È dunque comprensibile che un popolo convertito dalla ciotola di riso alla fuoriserie con concubina incorporata, sia sempre meno disposto a soffocare giovane, lasciando all’Occidente il lusso di respirare l’altrui ossigeno quasi in libertà . L’»operazione trasparenza», come il governo cinese l’ha definita non senza un certo gusto per il parodosso, nasce da qui: l’allarme non per gli 8500 morti di smog nel 2012, solo nelle dieci città  monitorate, e neppure per il più 60% di tumori ai polmoni negli ultimi dieci anni, ma per quelle inequivocabili manifestazioni di rivolta anti-potere che contagiano i più numerosi nababbi del pianeta e la più sterminata classe media nazionale mai contata sulla terra.
Per la propaganda, lo strano “caso-smog” è un fulmine, si fa per dire, a ciel sereno. Fino a un anno fa, i dati agghiaccianti diffusi regolarmente dall’ambasciata americana di Pechino venivano definiti «indebita intrusione straniera in questioni interne ». Versione ufficiale: «Tentativo di destabilizzazione». Oggi invece l’ordine di Stato è ammettere il problema, anzi denunciarlo, condannarlo, esaltarlo, fino ad annunciare il pugno di ferro contro chiunque osi ancora sporcare l’aria patria. Potenza dei moltiplicati colletti bianchi, vocati più a consumare che ad asfissiare, ma non solo. La potenza del secolo realizza che nell’infamante classifica delle dieci città  più inquinate del mondo, appena stilata da Asian Development Bank e Tshingua University, sette sono cinesi: Taiyuan, Pechino, Urumqi, Lanzhou, Chongqing, Jinan e Shijiazhuang. Solo l’1% delle principali 500 città  cinesi, vantano un’aria che per l’Oms «non attenta alla salute». I dati della Banca Mondiale mostrano poi che nel 2009 lo smog è costato alla Cina il 3,3% del reddito nazionale, schizzato a quasi il 5% lo scorso anno. La gente fa esplodere gli ospedali pubblici con malattie ai polmoni, al cuore, alla pelle e agli occhi. Impiegati ed operai si assentano da uffici e fabbriche, con i veleni sparati nell’atmosfera accusati di una perdita del 7% della produttività . Al resto dei danni economici ci pensano gli incidenti stradali, la cancellazione dei voli e perfino una durata inferiore di edifici e infrastrutture, valutata in media dieci anni. Può apparire spaventoso, ma nel nuovo paradiso di grattacieli, fabbriche e ferrovie ad alta velocità , l’inquinamento si vendica rosicchiando anche il cemento che dovrebbe custodire merci e persone.
L’insostenibile prezzo del veleno, economico e politico, è l’origine dell’inattesa “glasnost” che, grazie ai potenti mezzi dell’e-community, spinge dunque la rinnovata leadership comunista oltre le colonne d’Ercole della più collaudata censura. Il Quotidiano del Popolo osa chiedere di «uscire al più presto dall’assedio soffocante dell’inquinamento », mentre la statale Cctv si spinge a stabilire che «l’emergenza ambientale è la priorità  numero uno del nuovo segretario Xi Jinping». Nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, “The Big Smoke” creò il color “fumo di Londra” un secolo fa, provocando 12mila morti solo nel 1952. Negli Usa del boom, l’Air Pollution Control Act è del 1955. Nella Cina della prima frenata degli ultimi trent’anni, con il Pil che scende e lo smog che sale, non c’è oggi ombra di leggi e per ora ci si affida a divieti e minacce. Sotto accusa, il carbone e i gas di scarico delle automobili, giunte al primato di un milione di nuove vetture al mese, solo a causa del numero chiuso.
A Pechino, dove monta la rivolta popolare contro funzionari immortalati nella razzia di costosi depuratori e contro leader del partito fotografati a ossigenarsi sulle Alpi giapponesi, si annunciano così «misure straordinarie»: chiusure di fabbriche, abbassamento dei riscaldamenti, blocchi al traffico e riduzione dell’illuminazione notturna. Tutti sanno che si tratta del dito infilato nella diga e lo stesso Li Keqiang, prossimo premier, ha ammesso che «la lotta sarà  purtroppo un processo doloroso e lungo». Non solo Pechino, Shanghai, Shenzhen e Chongqing, con un Pil di poco inferiore a quello della Ue, rischiano di chiudere per esaurimento dell’ossigeno. Si aggiungono le regioni-cuore della “fabbrica del mondo”, tra cui Zhejiang, Jiangsu, Anhui, Mongolia Interna ed Hebei, dove le vittime per inalazione di derivati del piombo configurano quella che l’agenzia Xinhua denuncia come «inconfessabile strage nazionale». L’immagine non censurata dell’archistar dissidente Ai Weiwei, con il volto coperto da una maschera anti-gas, per milioni di cinesi diventa così in queste ore il certificato ufficiale della propria agonia, la prima contro cui non insorga l’Occidente e pure la prima che il partito-tutto autorizzi a condividere.
Il segnale è che non solo il costo della crescita ha superato i suoi ricavi, pregiudicando la sopravvivenza di chi ha la missione di produrre, ma che la nuova generazione dei leader cinesi, per salvare se stessa, è realmente decisa a cambiare al più presto “modello di sviluppo” e a investire in nuove fonti di energia. Nessuno stupore, ieri sera, quando il telegiornale, dopo i drammatici dati su un’altra giornata con 420 microgrammi di PM 2,5 per metro cubo a Pechino, ha trasmesso un servizio sulla “guerra per l’energia” nel Pacifico e uno sul boom dell’hitech nell’ex distretto manifatturiero di Canton. Lo smog cambia la Cina e la Cina, provando a pulire l’informazione con lo sporco del vento, vuole che il resto del mondo ne sia consapevole. Respirare, anche in Asia, oggi costa. C’è davvero qualcosa nell’aria, sopra la Città  Proibita: non solo la rinuncia alla delizia di uno spiedino.


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