by Sergio Segio | 19 Gennaio 2013 8:25
Il 18 febbraio l’Unione Europea firmerà il trattato che rende effettivo il brevetto europeo. Anche oggi, in verità , un inventore può brevettare la propria invenzione – ottenendo un monopolio ventennale sul suo uso – presso l’ufficio europeo dei brevetti di Monaco di Baviera. Dopo aver valutato la portata innovativa dell’invenzione, l’ufficio autorizza l’inventore a scegliere in quali Paesi del continente registrare il brevetto senza ulteriori esami. Tuttavia, in caso di contenzioso legale sulla legittimità del brevetto o su eventuali imitazioni non autorizzate, finora la competenza giuridica era rimasta prerogativa dei singoli Stati. L’accordo di febbraio, che fa seguito ad un’intesa raggiunta a luglio 2012, riunificherà anche questa fase della vita di un brevetto creando una corte europea con sedi a Parigi, Monaco e Londra. Qui, d’ora in poi, saranno discusse le controversie che riguardano le invenzioni tutelate in Europa.
L’accordo cade in un periodo di acque assai agitate per la proprietà intellettuale. Anche i più distratti, infatti, si saranno accorti che negli ultimi mesi i brevetti hanno fatto parlare di sé soprattutto per le battaglie legali tra le principali aziende dell’industria elettronica su prodotti di largo consumo come telefoni cellulari, tablet e il software che che permette l’uso. La ragione di tanta litigiosità non è un mistero. Secondo una stima approssimativa riportata dal «Financial Times», nella produzione di uno smartphone sono coinvolti circa 250mila brevetti, sommando tecnologie e soluzioni di design. È dunque fisiologico che il lancio di un nuovo prodotto generi una cascata di accuse e contro-accuse sul diritto di utilizzare invenzioni brevettate o sulla legittimità stessa dei brevetti.
Indicibili paradossi
L’attenzione dei media è amplificata non solo dalla quantità di vertenze attualmente in corso, ma anche dai nomi delle aziende coinvolte: tutte le principali corporation (Apple, Google, Samsung, Microsoft, Nokia etc.) hanno controversie aperte contro tutte le altre. Aggiungiamoci che, come finora in Europa, ogni battaglia deve essere combattuta Stato per Stato, tribunale per tribunale, in tutti i gradi di giudizio previsti. Un prodotto può così essere escluso dal mercato in un Paese e considerato legittimo in un altro, e così un brevetto. Possono persino verificarsi situazioni paradossali, come sta accadendo nella vertenza statunitense tra la Samsung e la Apple: l’azienda sudcoreana è stata condannata per aver copiato un brevetto relativo all’iPhone successivamente invalidato dall’ufficio brevetti americano, in quanto si tratterebbe a sua volta di un’invenzione non originale. Entrambi i procedimenti dovranno arrivare all’ultimo grado di giudizio, e ci metteranno alcuni anni, con buona pace della certezza del diritto.
Per definire questo gigantesco carico pendente sulle corti di tutto il mondo, il «New York Times» non ha esitato a parlare di Patent War, la «guerra dei brevetti». Come tutte le guerre, comporta costi esorbitanti. Secondo lo stesso quotidiano, nel 2011 le spese legate alla proprietà intellettuale – acquisizione di brevetti altrui e difesa legale delle proprie invenzioni – hanno superato gli investimenti in ricerca e sviluppo sia per Apple che per Google.
Un sistema fuori controllo
Il sistema ormai appare fuori dal controllo degli stessi leader del settore: dal presidente di Google Eric Schmidt a Jeff Bezos, fondatore del colosso dell’editoria digitale in ogni sua forma Amazon.com, non si contano le prese di posizione critiche nei confronti dell’attuale sistema brevettuale. Eppure, fermare la ruota appare impossibile, perché ogni causa persa può costare parecchio (ad esempio, l’esclusione di un prodotto dal mercato) e non ci si può permettere di porgere l’altra guancia. Il numero di brevetti depositati, e di conseguenti controversie legali, continua ad aumentare anche nei paesi che i brevetti li hanno subiti più che sfruttati, come Cina, Corea del Sud e India. È un piccolo paradosso, in quanto Cina e Corea del Sud devono parte del loro sviluppo recente proprio alla sostanziale inosservanza delle regole della proprietà intellettuale, mentre l’India ospita una fiorente industria dei farmaci generici ed esporta medicine sul mercato parallelo verso i Paesi più poveri, che ai prezzi ufficiali non se le possono permettere. Ma è il prezzo necessario per stare alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) e partecipare al libero mercato mondiale.
Il numero di brevetti richiesti all’ufficio di Pechino ha così raggiunto il mezzo milione (un quarto del totale mondiale), lo stesso livello degli Stati Uniti che guidavano questa speciale classifica fino al 2011. La proliferazione dei brevetti, però, è precedente alla nascita dell’Omc. È iniziata circa trent’anni fa, e diversi analisti hanno tentato di spiegare questo fenomeno. Alcuni ritengono che l’aumento dei brevetti sia dovuto alle norme che hanno incoraggiato i ricercatori pubblici a tutelarsi per mezzo della proprietà intellettuale (come la legge Bayh-Dole del 1980 esportate dagli Usa in tutto il mondo, anche in Italia), mentre in precedenza ne erano esclusi. Altri ritengono che sia una conseguenza del fatto che sia nell’informatica che nelle biotecnologie, due settori di recente sviluppo, il confine tra ricerca di base non brevettabile e applicazioni tecnologiche sia troppo labile. Entrambe le tesi però sono contestate: l’incremento dei brevetti ha preceduto il Bayh-Dole Act, mentre le biotecnologie e l’informatica rappresentano una quota troppo piccola sul totale dei brevetti. Solo su un punto queste analisi concordano: all’aumento del numero dei brevetti (triplicato nel trentennio 1980-2010) non è corrisposta una crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo, rimasti stagnanti nello stesso periodo.
Da alcuni anni, e soprattutto dopo la pubblicazione risalente al 2004 del saggio Innovation and its discontents di Adam Jaffe e Josh Lerner (Princeton Press), gli analisti rivolgono la loro attenzione all’assetto istituzionale che regola la proprietà intellettuale. In particolare, puntano il dito contro la Corte d’Appello per il Circuito Federale, il tribunale americano creato trent’anni fa e competente sui ricorsi relativi alla proprietà intellettuale negli Usa, e sull’inefficienza degli uffici brevetti di tutto il mondo. Oggi ottenere un brevetto è diventato facile un po’ ovunque, a patto di avere la pazienza di aspettare i circa tre anni che mediamente trascorrono tra la domanda e l’assegnazione. Quest’attesa non dipende dall’accuratezza della valutazione della domanda, anzi. L’esame sul contenuto inventivo di una domanda di brevetto, infatti, dura mediamente in poche ore: venti negli Usa e in Cina, trenta in Europa, meno di dieci in India, perché il carico di domande pendenti è troppo elevato per le scarse risorse umane e materiali degli uffici brevetti. Con così poco tempo a disposizione, un esaminatore di brevetti dovrebbe poter consultare un enorme numero di fonti per valutare l’effettiva novità dell’invenzione, verificarne l’efficacia e l’utilità , che in ogni Paese rappresentano i requisiti di brevettabilità .
Quando gli uffici brevetti erano meno intasati tali verifiche venivano fatte con maggiore cura. Si narra che persino le storie di Walt Disney fossero consultate al pari delle riviste scientifiche: a chi proponeva di riportare a galla vecchi relitti riempiendoli di palline galleggianti, un esaminatore olandese negò il brevetto in quanto la stessa invenzione era già stata descritta nell’albo intitolato «L’eredità di Paperino» del 1948 (un incendio all’archivio dell’ufficio brevetti olandese ha reso ormai impossibile confermare la vicenda, che però continua a circolare tra gli addetti ai lavori).
Grazie a esami così imprecisi, finiscono per essere tutelate anche invenzioni banali: recentemente, c’è chi si è divertito a brevettare il tramezzino o l’altalena. Ma il fenomeno acquista rilevanza sociale quando sotto esame finiscono conoscenze tradizionali di culture rurali che difficilmente sono documentate e consultate: il meccanismo permette di brevettare anche le proprietà benefiche di alimenti di base come il grano indiano, seppure note da millenni.
I troll delle invenzioni
La facilità di ottenere un brevetto stimola le aziende a richiederne sempre di più, aumentando ulteriormente il carico pendente degli uffici brevetti, che diventano ancor più approssimativi. Questo circolo vizioso, secondo Jaffe e Lerner è all’origine della proliferazione brevettuale. Gli scioperi degli esaminatori brevettuali statunitensi ed europei, stanchi per i ritmi e le pressioni ricevute, sembrano confermare questa tesi.
Dato che brevetti concessi con troppa disinvoltura possono provocare con più probabilità controversie legali, il vero esame sulla brevettabilità di un’invenzione oggi avviene in tribunale. Con la piccola differenza che, avvalendosi di studi legali molto più attrezzati (e costosi: 500 dollari l’ora le spese legali dichiarate dalle imprese coinvolte nelle vertenze), le grandi aziende partono da posizioni di evidente vantaggio, e l’attività inventiva passa in secondo piano. Si è diffuso inoltre il fenomeno dei patent troll, aziende che brevettano invenzioni senza svilupparle né utilizzarle, solo per portare davanti al giudice qualche colosso disposto a patteggiare pur di non trovarsi bastoni tra le ruote. Come gli speculatori in borsa, i patent troll sono sia causa che effetto di una bolla destinata prima o poi a scoppiare.
L’imminente insediamento di una Corte europea dei brevetti con poteri simili a quelli della Corte federale statunitense, dunque, equivale ad imboccare una strada con trent’anni di ritardo proprio mentre chi l’ha già percorsa se ne sta pentendo. Anche l’Unione Europea rafforzerà le istituzioni preposte alla risoluzione delle controversie senza irrobustire gli uffici brevetti, la cui efficienza potrebbe limitare la litigiosità ed evitare che anche qui si inneschi il circolo vizioso denunciato negli Usa.
La carica degli abolizionisti
Il governo italiano, per la verità , è uno di quelli che tentato invano di bloccare il trattato sul brevetto europeo, ma per ragioni di campanile: il diritto di uno Stato europeo di redigere le domande di brevetto nella propria lingua, e non solo in inglese, francese o tedesco come infine è stato stabilito. È mancata del tutto, invece, una critica basata sulle evidenze accumulate negli anni a livello internazionale da un lato all’altro dell’Atlantico. La crisi delle forze politiche di sinistra o dei movimenti altermondialisti, che avevano in passato arginato l’offensiva delle corporation della proprietà intellettuale, c’entra fino a un certo punto. Nel dibattito sulla proprietà intellettuale, oggi va per la maggiore la critica ai brevetti proveniente da economisti liberisti. Quella, ad esempio, dell’italiano Michele Boldrin e dello statunitense David K. Levine, che nel 2012 hanno firmato un pamphlet intitolato Abolire la proprietà intellettuale (Laterza). Ma la loro tesi, secondo cui il brevetto, come ogni monopolio legale, danneggia soprattutto il libero mercato, ha ottenuto più ascolto negli Stati Uniti che in Europa. È stata dunque un’occasione persa per aprire un dibattito intorno alla proprietà intellettuale in tempi di crisi economica e proporre per l’Europa un ruolo davvero innovativo nel contesto globale.
LE MACCHINE DI LEONARDO
Presentato il decalogo delle buone intenzioni Negli Stati Uniti, c’è una proposta di tregua per la guerra dei brevetti. A farla è l’Ufficio dei Brevetti. Invita le imprese «made in Usa» a sviluppare prodotti senza fare ricorso ai brevetti depositati in altri Stati, evitando così i possibili ricorsi di società non statunitensi sulla eventuale violazione. Allo stesso tempo, le imprese dovrebbero verificare l’esistenza di brevetti su soluzioni adottate. Questo vale sopratutto per i tablet, gli smartphone e il software. La proposta è stata presentata nei giorni scorsi. Finora sono giunti solo generici commenti di disponibilità a aderire al catalogo di buone intenzioni stilato dall’ufficio brevetti. In fondo, i brevetti sono uno strumento usato per un’altra ben più rilevante guerra, quella commerciale, combattuta in una fase di crisi globale e di un mercato «saturo», come è quello dell’high-tech.
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