by Sergio Segio | 21 Gennaio 2013 16:57
Di fatto, sono svalutazioni competitive. A guidare l’offensiva sono Stati Uniti e Giappone, decisi a indebolire il proprio tasso di cambio per dare una spinta alle esportazioni e alla crescita. A farne le spese è l’euro, già palesemente sopravvalutato, con grave danno per l’intera economia europea e soprattutto per un paese come l’Italia che ha l’impellente necessità di rilanciare il proprio export verso il resto del mondo.
L’uscita della Romer è un segnale del nuovo capitolo che si apre nella battaglia fra le banche centrale. Christina Romer è stata a lungo la capa dei consiglieri
economici di Obama.
ANCHE dopo essere tornata alla sua carriera accademica a Berkeley, resta una delle voci più ascoltate dalla Casa Bianca. Ha un rapporto stretto con Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve. La Romer lancia segnali che rivelano un dibattito in corso tra la Casa Bianca e la banca centrale. Questa volta si pronuncia con un editoriale sul New York Times subito dopo un’importante riunione tra il governo giapponese e la banca centrale di Tokyo, un summit nel quale è maturata una rivoluzione nella strategia monetaria nipponica. Il ministro dell’economia Akira Amari ha anticipato «un annuncio entro questa settimana». Il contenuto della svolta è questo: la Banca del Giappone dovrà darsi l’obiettivo ufficiale di «generare inflazione al 2%», sospingendo al rialzo i prezzi che da anni sono in discesa. Lo farà attraverso un poderoso piano di acquisti di bond pubblici nipponici, l’equivalente di 1.200 miliardi di dollari solo per il 2013, da ripetersi «senza limiti temporali» finché insieme con l’inflazione non sarà ripartita la crescita. “Fabbricare inflazione” è la missione diametralmente opposta a quella che le banche centrali hanno perseguito per decenni, cioè la stabilità dei prezzi. Perché “fabbricare inflazione” fa bene alla crescita? In due modi. Anzitutto serve a invertire le aspettative di imprese e consumatori: se i prezzi torneranno a salire, conviene spendere subito e conviene indebitarsi per investire e assumere (l’inflazione si occuperà di alleggerire il peso reale dei debiti). Inoltre è un modo per indebolire la moneta nazionale, quindi dare una spinta all’industria esportatrice. Quest’ultimo obiettivo, la Banca del Giappone lo persegue in maniera ancora più diretta: ha già avviato massicci acquisti di euro. Comprare euro vendendo yen è un metodo sicuro per deprezzare la valuta nipponica.
Un’offensiva analoga era stata iniziata proprio dall’America. È la stessa Romer a ricordare quel che sta avvenendo negli Stati Uniti: «La sceneggiata tra la Casa Bianca e il Congresso (sul tetto del debito, ndr) nasconde un cambiamento che è più importante. La Federal Reserve ha adottato una politica monetaria più aggressiva che può rivelarsi molto utile per la ripresa». La banca centrale Usa si è data per la prima volta nella storia un obiettivo tassativo di calo della disoccupazione: vuole ridurla fino al 6,5% (ora il tasso di disoccupazione è 7,8% dopo essere stato superiore al 10% durante la recessione). Finché l’economia americana non accelera la sua crescita verso la piena occupazione, la Fed continuerà ad oltranza i suoi massicci acquisti di bond (85 miliardi al mese) che pompano liquidità nell’economia. Anche la Fed “fabbrica inflazione”, e la Romer suggerisce che potrebbe farlo in maniera ancora più esplicita, segnalando che il tasso direttivo resterà inchiodato a zero anche se l’inflazione dovesse superare l’obiettivo del 2% che si sono dati i giapponesi. «Non basta la crescita, occorre una crescita rapida», rincara la Romer. Riecheggia così le tesi dell’ala sinistra della Fed che vuole addirittura abbassare al 5,5% l’obiettivo di disoccupazione da raggiungere. La novità più sensazionale, è quel passaggio in cui la consigliera di Obama suggerisce di annunciare esplicitamente una politica del «dollaro debole». Sarebbe uno strappo, perché finora il galateo diplomatico delle banche centrali (e dei ministeri del Tesoro) impone di manipolare il cambio senza dirlo, di giocare alle svalutazioni competitive negando risolutamente l’evidenza.
I mercati capiscono che siamo in piena recrudescenza delle guerre monetarie, e si adeguano. Gli investitori internazionali vanno a caccia di monete da sospingere al rialzo: dal rublo russo al peso messicano. “Salgono tutte quelle monete le cui banche centrali tollerano i rialzi, o non riescono ad opporvisi, a differenza di quanto hanno fatto la banca centrale del Brasile, della Corea del Sud, della Svizzera”, osserva il Wall Street Journal.
L’euro e` con i vasi di coccio. Subisce le offensive altrui, che lo hanno spinto ai livelli massimi degli ultimi mesi, a quota 1,33 sul dollaro. Sul finire della settimana scorsa il rialzo dell’euro ha conosciuto una pausa, sotto shock per i pessimi dati sull’economia italiana. Ma non bastano gli andamenti delle economie reali a determinare i valori della valute. Altrimenti dovrebbe essere ben più forte il dollaro Usa, moneta di una nazione che ha ripreso a crescere già da due anni e che genera 150.000 posti di lavoro aggiuntivi ogni mese da oltre un biennio. Dovrebbe essere più forte di tutti il renminbi cinese, valuta di un’economia che ha ritrovato la velocità di crescita dell’8% annuo. Al contrario, le economie forti sono quelle che schiacciano spregiudicatamente al ribasso le proprie monete per dare una marcia in più all’export.
La Bce di Mario Draghi dall’estate scorsa ha avviato anch’essa gli acquisti dei bond, che hanno dissipato i timori di default per Spagna e Italia. Tuttavia la Bce mantiene un tasso più alto di quello americano (0,75% contro lo zero della Fed). Non può perseguire apertamente la svalutazione dell’euro per non sfidare le ire della Germania dove ancora impera un’ideologia della moneta forte. Soprattutto, a differenza da tutte le altre superpotenze economiche (Usa, Cina, Giappone), l’eurozona ha politiche di bilancio che “tirano” nella direzione opposta alle politiche monetarie. Per quanto la Bce possa dare ossigeno con i suoi acquisti di bond, lo stesso ossigeno viene “succhiato via” dalle economie reali per effetto delle politiche di austerity.
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