LA FOLLIA DI GOETHE PER WITTGENSTEIN
Saldamente consapevole, pur nel delirio, di aver scritto le cose più grandi della letteratura tedesca (e dunque di aver paralizzato, al cospetto della grandezza delle sue opere, la letteratura tedesca); di aver distrutto ogni suo incauto avversario o competitore a cominciare da quel poveraccio di Schiller; infine, di aver annientato e imbrogliato i tedeschi che continuano a non capire di essere stati imbrogliati, Goethe è agitatissimo: devono andargli a prendere Wittgenstein a Cambridge a ogni costo e portarglielo a Weimar, perché alla fine della sua vita vuole conoscere il suo figlio filosofico, il suo erede. E non gli importa nulla che Wittgenstein non sia ancora nato (nascerà una cinquantina d’anni più tardi), che è inverno e i suoi assistenti dovranno attraversare la Manica nelle bufere: Wittgenstein dovrà essere al suo capezzale perché — in quel mondo di mediocri e dementi — guardandolo negli occhi, lui possa riconoscere un’ultima volta il Genio, vale a dire se stesso.
Fin da quando era bambino, un uomo che adesso ha quarantadue anni è stato torturato dai suoi genitori. Loro — i suoi genitori — sono convinti dell’esatto contrario: il torturatore, colui che ha distrutto le loro vite rifiutando caparbiamente di fare qualunque cosa gli venisse proposta, di imboccare qualunque strada gli venisse aperta e spianata davanti, è il ragazzino che non doveva nascere forse, e adesso ha quarantadue anni.
Chi ha ragione? Hanno ragione i genitori esasperati che hanno offerto al figlio restio alla vita ogni occasione di vita, o il figlio restio alla vita che ha vissuto tutto quello che gli veniva proposto come una mostruosa sopraffazione, si è sentito cavar l’anima di dosso, e pian piano si è ammalato, irreversibilmente come dicono i medici, perché i suoi genitori, e anche gli altri famigliari, al suo cuore non hanno dato tregua? Non lo sappiamo. Ma questa famiglia infelice vive in una casa di campagna che è collegata con una torre nella quale sono conservati dei libri (che naturalmente il perseguitato-persecutore ha sempre avuto il divieto di leggere), simile al castello di Montaigne. Un giorno, in gran segreto, l’uomo di ormai quarantadue anni riesce a penetrare nella torre e alla cieca trae un libro da uno scaffale. E’ un libro di Montaigne.
Due amici che non si vedevano da quando erano ragazzini si incontrano sotto la pioggia nella stazione di un anonimo paese austriaco. Quando erano ragazzini facevano, insieme ai loro genitori, delle gite in montagna che entrambi odiavano.
Le odiavano perché i loro genitori volevano la quiete; perché i loro genitori suonavano la cetra e la tromba, al rifugio; perché erano vestiti da montanari; perché il sole accecava gli occhi; perché i genitori non trovavano la quiete e incolpavano loro (i ragazzini) di distruggere ogni possibilità di raggiungere la quiete. Mai sono state odiate tanto le gite in montagna! Adesso, uno dei due ex-ragazzini che si incontrano alla stazione: quello che si è ribellato al carcere dei suoi genitori, racconta tutto ciò; e incolpa l’altro della sua mancata ribellione. L’altro sta zitto.
Un uomo in fuga scrive a un amico raccontando la sua fuga per l’Europa. Non si ferma da nessuna parte. Non gli piace nulla. Finalmente, a Rotterdam, fa un sogno. Sogna che l’Austria, con tutti i suoi abitanti, brucia in un immenso falò. Si sveglia e è felice.
Questi quattro incantevoli racconti di Thomas Bernhard, raccolti sotto il titolo Goethe muore (Adelphi, pp. 109, € 11) sembrano i quattro vetri di una lanterna girevole. Dentro la lanterna, c’è tutto il sarcasmo, tutto il dolore, tutta l’ironia di Bernhard. E c’è la sua meravigliosa prosa, che sempre amiamo intensamente.
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