La Cina abolisce i campi di lavoro forzato

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LA CINA dovrebbe cancellare entro l’anno in corso i campi di rieducazione attraverso il lavoro, i laojiao, l’annuncio lo avrebbe dato Meng Jiangzu, fino al mese scorso ministro della Pubblica sicurezza. La notizia è dirompente, se è vera, se non vi saranno smentite, se l’agenzia ufficiale Nuova Cina la confermerà  nell’immediato, perché ieri si è limitata a comunicare che il governo cinese andrà  avanti nella riforma del sistema penale senza citare l’abolizione del sistema dei campi di lavoro, in vigore da 56 anni. Un sistema che ha impresso una macchia ignominiosa su un regime che è sorto senza preoccuparsi troppo della certezza del diritto, dove la giustizia si fregiava dell’unica certezza di essere “proletaria” e gli abusi sono stati infiniti, purtroppo immaginabili.
Per essere condannati al laojiao, non c’era — e non c’è ancora — bisogno di nessun processo, basta che la polizia lo voglia e lo sanzioni con una pratica ammini-strativa di reclusione fino a un massimo di tre anni, a discrezione aumentabili fino a otto. E poi? Negli ultimi tempi la stampa, anche quella più vicina al potere, ha svolto inchieste per denunciare la barbarie di un metodo che forse andava bene negli anni caotici della Cina rivoluzionaria ma che non è ammissibile in un Paese che aspira alla leadership mondiale. E da più parti è stato ribadito che questa pratica è in contraddizione con la Costituzione del 1983, ancora una volta al centro della richiesta di vere riforme. Per quanto riguarda il laojiao,
ha destato scandalo in tutto il Paese, nel mese di agosto, la condanna a otto anni, per decisione amministrativa degli organi di polizia, di una donna che aveva osato protestare contro la pena di appena sette anni, troppo lieve secondo lei, inflitta all’uomo che aveva rapito, violentato e indotto alla prostituzione la sua bambina di 11 anni. Ma come? Sette anni per il crimine e otto per chi lo contesta?
La mobilitazione in favore della condannata è stata unanime e dopo una settimana la donna è tornata in libertà . Ma quale organismo istituzionale garantisce ora questa sua precaria libertà ? Su questi temi si va infittendo il dibattito sul sistema giudiziario cinese che fatica a riformarsi in mancanza di una cultura giuridica nazionale e che, in ottobre, ha tentato di stabilire alcuni punti fermi per fare chiarezza in un Libro Bianco in cui, fra le varie proposte avanzate, spiccava quella per l’abolizione del
laojiao, l’amministrazione della giustizia da parte dei poliziotti. Oggi ci si domanda quante persone siano rinchiuse nei campi di rieducazione: si va, secondo le fonti cinesi, da 160mila a 300mila reclusi, ma sui numeri reali c’è incertezza. Nel 1957, quando questo sistema sbrigativo venne introdotto, i condannati erano per lo più i cosiddetti contro rivoluzionari, oggi invece sono in massima parte persone ritenute colpevoli di reati minori, droga, prostituzione e piccoli furti, ma incappano nella rete anche gli oppositori del regime e fedeli di sette religiose come la Falungong. Diverso dal laogai, che era una pena detentiva inflitta da un tribunale che comportava la sospensione dei diritti civili e l’obbligo di lavorare senza salario e che è stato soppresso nel 1997, tramutato in pena carceraria, il laojiao prevede
un salario minimo e il mantenimento dei diritti civili, ma i condannati rimangono comunque totalmente dipendenti dal sistema, cioè dai loro carcerieri. E sono gente senza speranza. Che ne sarà  di loro se la notizia dell’abolizione del laojiao è vera? Di sicuro non sarà  “Tutti a casa”. Ma che sarà ?


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