by Sergio Segio | 12 Gennaio 2013 7:27
Potrebbe essere utile distinguere il concetto di piacere da quello di gioia. Ma forse è una distinzione che tutti fanno molto facilmente, di continuo, e sono solo io a essere confusa. Molta gente sembra credere che la gioia sia solo la versione più intensa del piacere, e che ci si arrivi per la stessa strada: basta solo spingersi qualche passo più avanti. Ma la mia esperienza dice tutt’altro. E se mi chiedeste se desidero provare più spesso gioia nella vita, non sono affatto sicura che risponderei di sì, proprio perché si dimostra un’emozione molto difficile da gestire. A me non appare tanto evidente come si dovrebbe fare a conciliare la gioia con il resto della nostra vita quotidiana.
Forse la prima cosa da dire è che io provo almeno un po’ di piacere ogni giorno. Mi chiedo: sarà più della dose normale? Per me era così anche durante l’infanzia, periodo in cui, viceversa, tanta gente è infelice. Non penso che sia perché mi succedono di continuo cose meravigliose, ma perché le piccole cose su di me hanno un grande impatto. Mi sembra, per esempio, di trarre una soddisfazione superiore alla norma dal cibo: qualunque tipo di cibo.
Un sandwich con l’uovo strapazzato comprato da uno di quei camioncini sudici su Washington Square ha veramente il potere di risollevarmi la giornata. Qualunque cosa mi venga messa davanti, in termini di cibo, di solito la promuovo col massimo dei voti.
Verrebbe da pensare che alla gente piaccia cucinare per me, o mangiare in mia compagnia; ma in realtà mi dicono che è noioso. Quando non c’è giudizio critico non ci può essere apprezzamento della competenza né gratitudine per uno sforzo speciale. «Non dire che era delizioso», mi avverte mio marito, «dici sempre che è tutto delizioso». «Ma era delizioso davvero». La cosa lo fa impazzire. Posso passare un’intera giornata a pregustare un ghiacciolo. La persistente ansia che riempie il resto della mia vita si placa nel momento in cui ho il sapore di qualcosa di buono in bocca. E benché sia vero che quando il sapore finisce l’ansia ritorna, non abbiamo tante fonti affidabili di piacere, in questa vita, da permetterci di snobbarne una che è così facilmente a disposizione, specie qui in America. Un ghiacciolo all’ananas. Anche l’enorme ansia della scrittura si può fermare per gli otto minuti che ci vogliono per mangiare un ghiacciolo all’ananas.
L’altra mia fonte quotidiana di piacere sono – ma vorrei che ci fosse un modo migliore per dirlo – «le facce della gente». Una ragazza dai capelli rossi, con un magnifico nasone che lei probabilmente detesta, gli occhi verdi e quella carnagione poco amante del sole composta più di lentiggini che di pelle. Oppure un uomo adulto corpulento che fuma una sigaretta sotto la pioggia, con i baffi zuppi, sopra i quali, sorpresa: gli occhi svegli, il naso tozzo e la bocca da angioletto che aveva a otto anni. Uscendo dalla biblioteca a fine giornata affretto un po’ il passo verso casa per raccontare a mio marito di un adolescente spigoloso, con gli occhi di gatto, in jeans attillati e stivali a tacco alto, una normalissima felpa grigia, il trucco della sera prima e una setosa parrucca da Pocahontas indossata un po’ sbilenca sopra la capigliatura afro. Camminava ancheggiando, con le trecce al vento, usando l’intera Broadway come sua passerella personale. «Una principessina fuori servizio». Lo aggiungo per chiarezza, ma mio marito annuisce con un pizzico di insofferenza: non c’era bisogno di ulteriori commenti. Anche mio marito è un osservatore professionista.
In genere dei consigli che si trovano sulle riviste femminili bisogna solo diffidare, ma c’è qualcosa di vero nella vecchia massima del «condividere gli stessi interessi». In effetti aiuta. A me piace starlo a sentire quando mi racconta della ragazza cinese che ha visto nell’atrio, con un grosso libro di medicina in mano, così bella che sembrava quasi dipinta. O dell’altissimo kenyano che ha incrociato in ascensore, la cui eleganza allungata riduceva tutti gli altri corpi nelle vicinanze alla condizione rattrappita e nodosa di un troll. In genere si tratta di persone che non ho visto – mio marito lavora all’ottavo piano della biblioteca, io al quinto – ma il solo ascoltarle descrivere può essere un piacere quasi equivalente a quello di incontrarle dal vivo. E ancora più piacevole è quando ricreiamo la camminata, i gesti o la voce di questi sconosciuti, o intere conversazioni – fra due persone in fila al bancomat, o due studenti su una panchina accanto alla fontana.
E poi ci sono tutte le cose che fa e dice il nostro cane, totalmente antropomorfizzato e in genere offensivo, quando esprime il mondo di cose che io e mio marito non possiamo fare o dire in prima persona, fra noi o ad altra gente. «State facendo il cane», ha detto di recente nostra figlia, sorprendendoci. Ha quasi tre anni e tutti i nostri linguaggi in codice stanno perdendo la loro privacy e diventandole comprensibili. Ovviamente sapevamo che prima o poi sarebbe arrivata alla piena consapevolezza, e che prima di allora avremmo dovuto smettere di litigare, fumare, mangiare carne, usare Internet, parlare della faccia delle altre persone e dare voce al cane, ma adesso quel momento è arrivato, lei capisce tutto, e noi ci ritroviamo incapaci di cambiare. «Smettetela di fare il cane», ha detto, «è da stupidi», e per la prima volta in otto anni abbiamo guardato il cane e ci siamo vergognati.
Di tanto in tanto anche la bambina è un piacere, anche se perlopiù è una gioia, il che significa che non ci dà molto piacere, ma più che altro quella strana commistione di terrore, dolore e delizia che sono arrivata a riconoscere come gioia, e con cui adesso devo trovare un modo per convivere quotidianamente. È un problema nuovo. Fino a poco tempo fa avevo conosciuto la gioia solo cinque volte in vita mia, forse sei, e ogni volta avevo tentato di dimenticarla subito dopo, per paura che il suo ricordo rendesse insensato e distruggesse tutto il resto.
Diciamo sei. Tre di queste volte ero innamorata, ma solo una volta era un amore capace di funzionare, o verosimilmente in grado di procurarmi del piacere anche a lungo termine. Due volte ero drogata – di sostanze molto diverse. Una volta ero nell’acqua, una volta su un treno, una volta seduta in cima a un muro, una volta in cima a una collina, una volta in un locale notturno e una volta in un letto d’ospedale. È difficile trarre conclusioni generali di fronte a un assortimento di dati così ridotto e disomogeneo. Quello su cui sono incerta è il caso del locale, e dato che si trattava sostanzialmente di un’esperienza collettiva sento di poter coinvolgere il pubblico nel dibattito sulla questione. Mi rivolgo in particolare ai miei connazionali britannici. Connazionali britannici! O meglio, quelli di voi che hanno avuto la fortuna di provare la prima generazione dell’anfetamina chiamata ecstasy senza sperimentare le reazioni negative, a volte letali, che ora sappiamo essere state subite da altri: ecco, ho una domanda per voi. Quella era gioia?
Mi interesserebbe particolarmente sentire l’opinione di chi si trovava in un locale chiamato Fabric, vicino al vecchio mercato della carne di Smithfield, in una sera dell’anno 1999 (mi dispiace di non saper essere più precisa), quando il dj mixò Can I Kick It? e poi Smells Like Teen Spirit al pezzo house che sembrava essere durato senza interruzioni per le quattro ore precedenti. Io, personalmente, stavo uscendo dai cavernosi bagni unisex (!) nella speranza di trovare la mia amica Sarah, o, se non lei, il mio amico Warren, o, se non lui, qualcuno che avesse pietà di una ragazza che aveva preso dell’ecstasy di cui stava per cominciare a sentire l’effetto, e che aveva perso tutti e tutto, compresa la sua borsa. Incespicando, mi reimmersi nella bolgia.
Quasi tutti i maschi erano a torso nudo e quasi tutte le femmine, me compresa, indossavano strani grembiulini, di moda all’epoca, che coprivano solo il davanti del torace, e mantenevano il decoro solo grazie a qualche laccetto dall’aria non molto robusta legato in un fiocco grazioso dietro la schiena. Mi feci largo in mezzo a quella ressa di schiene nude sudate, disperata, chiedendomi dove, in un mega locale del genere, ci si potesse coricare per la notte (sulle scale? davanti all’uscita antincendio?). Ma ogni cosa che tentavo di guardare esplodeva in mille pezzi e si riassestava in una serie di frammenti che componevano un disegno, come se vivessi dentro un caleidoscopio. E comunque, dove stavo cercando di andare? Non c’era più nessun «bar» e nessuna «chill-out zone»: c’era solo la pista da ballo. Era tutta una pista. Tutti ballavano. Io rimasi ferma, schiacciata da ogni lato dalle danze, convinta che da un momento all’altro sarei andata fuori di testa.
Poi all’improvviso sentii Q-Tip – benedetto Q-Tip! – non un sintetizzatore, non un vocoder, ma Q-Tip, con la sua voce umana, che rappava sopra un beat umano. E mentre la testa mi si scoperchiava per lasciar entrare l’umanissimo Q-Tip, un tipo magro come uno spillo con due occhi enormi si allungò in mezzo a un mare di corpi per prendermi la mano. Continuava a farmi la stessa domanda a ripetizione: La senti? La sentivo sì. I miei tacchi assurdi mi stavano uccidendo, avevo una paura tremenda di morire, ma allo stesso tempo traboccavo di godimento nel sentire che Can I Kick It? veniva suonata proprio in quel particolare istante della storia del mondo, e adesso si stava trasformando in Smells Like Teen Spirit. Presi il tipo per mano. Il coperchio della testa mi volò via definitivamente. Ballammo e ballammo. Ci abbandonammo alla gioia.
Anni dopo, ascoltando una canzone intitolata Weak Become Heroes, dell’artista inglese The Streets, ho trovato quell’esperienza ricreata quasi perfettamente nelle sue rime, e mi sono resa conto che, così come la maggioranza dei bambini americani che erano vivi nel 1969 videro l’atterraggio sulla luna, quasi tutti gli inglesi che avevano fra i sedici e i trent’anni negli anni Novanta hanno incontrato una qualche versione del pasticcaro smilzo in cui mi ero imbattuta io quella sera al Fabric. Il nome che gli dà The Streets è «European Bob». Io ho il sospetto che sia una figura archetipica della mia generazione. Un altro esemplare di questa razza è il personaggio di «Super Hans» nella sitcom britannica Peep Show, anche se sarebbe più corretto dire che Super Hans è European Bob «da vecchio» (a quarant’anni). Il nome del mio pasticcaro non me lo ricordo, ma lo chiamerò «Sorrisone». Era uno di quegli sconosciuti che si incontravano esclusivamente sulla pista di una discoteca, oppure su una spiaggia di Ibiza. Tendevano ad avere soprannomi inesplicabili, nessun domicilio o legame familiare che si potesse mai identificare, una capacità illimitata di assumere droghe e un senso di benevolenza universale verso tutti gli uomini e le donne, a prescindere dal colore della pelle, dal credo religioso o dallo stato di alterazione. […]
Quella era gioia? Probabilmente no. Ma imitava piuttosto bene le condizioni della gioia. Racchiudeva, in forma minore, la grossa fatica che in genere precede la gioia, e la sensazione – una volta raggiunta la gioia – che il soggetto che la prova sia in qualche modo «entrato» in quell’emozione, e ci sia scomparso dentro. Il piacere è qualcosa che «ho», una sensazione che voglio provare e fare mia. Una vacanza al mare è un piacere. Un vestito nuovo è un piacere. Ma sulla pista di quel locale io ero la gioia, o quantomeno un pezzetto di gioia, insieme a tutte quelle altre centinaia di persone che erano anche loro parte della gioia. (…)
L’amore vero è arrivato molto più tardi. Era alla fine di una strada lunga e difficile, e fino all’ultimo momento ero convinta che non sarebbe sbocciato. Il suo arrivo mi ha colto così di sorpresa, così impreparata, che per quel giorno avevo già programmato di andare a visitare insieme il museo dell’Olocausto di Auschwitz. Sul treno che ci portava al pullman che ci avrebbe portati a destinazione, tu mi accarezzavi i piedi. Eravamo diretti verso tutto ciò che rende la vita intollerabile, e provavamo l’unica cosa che la rende degna di essere vissuta. E cioè la gioia. Ma non serve a niente pensarci o parlarne. È del tutto fuori posto accanto alla furiosa litigata su chi ha pulito la casa o è andato a prendere la bambina. È irrilevante quando si sta seduti tranquilli sul divano a guardare un vecchio film, o si fa l’imitazione di due vecchiette in un negozio, o quando io mangio un ghiacciolo mentre tu mi guardi male, o quando lavoriamo su due piani diversi della stessa biblioteca. Non c’entra nulla con la quotidianità . La cosa che nessuno dice mai della gioia è che contiene pochissimo vero piacere. Eppure se non l’avessimo sperimentata affatto, almeno una volta, come faremmo a vivere?
Un pensiero conclusivo: a volte la gioia si moltiplica pericolosamente. L’esempio più famigerato sono i figli. Non è già abbastanza tremendo che la persona amata, con la quale hai provato autentica gioia, un giorno finirai per perderla? Perché aggiungere a quest’incubo un figlio, la cui perdita, se mai dovesse avvenire, equivarrebbe per te al totale annientamento? Va detto che una gioia altrettanto pericolosa, per molte persone, è rappresentata dal cane o dal gatto, dato che le relazioni con gli animali sono in un certo senso rese ancora più intense dalla loro ineluttabile finitudine. Uno spera sempre di andarsene prima del proprio figlio. Ma è quasi sicuro che il cane se ne andrà prima di lui. La gioia è una follia soltanto umana.
Lo scrittore Julian Barnes, parlando del lutto, una volta ha detto: «Tanto valore ha una cosa, tanto fa male perderla». In realtà era stato un suo amico a scrivere questa frase in una lettera di condoglianze, e Julian l’ha ripetuta a mio marito, che l’ha ripetuta a me. Da allora, quelle parole ci sono rimaste impresse per mesi, nella loro chiarezza e brutalità . Tanto valore ha una cosa, tanto fa male perderla. Che paradosso. Perché uno dovrebbe accettare delle condizioni tanto assurde? Se fossimo sani di mente e ragionevoli, ogni volta sceglieremmo senz’altro un piacere piuttosto che una gioia, come fanno, sensatamente, gli animali stessi. In fondo un piacere, quando finisce, non fa molto male a nessuno, e si può sempre rimpiazzare con un altro di valore più o meno equivalente.
Traduzione Martina Testa © 2013 Zadie Smith
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