In Europa, l’austerità  è figlia di un dominio senza egemonia

by Sergio Segio | 19 Gennaio 2013 8:20

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L’articolo di Gnesutta e Pianta “L’Italia nella rotta d’Europa( (il manifesto del 10 gennaio e www.sbilanciamoci.info) ha il merito di ristabilire il dibattito dentro il suo tracciato corretto, ma a mio avviso è necessario rimarcare alcune caratteristiche strutturali che aiutino a definire quali sono i margini di azione per le politiche del prossimo governo italiano. 
Esiste una coerenza tra il governo tecnico, il fiscal compact e l’agenda futura di Mario Monti (in particolare il lemma “oltre la sinistra e la destra”): il venir meno del processo di integrazione europeo come collante egemonico del ruolo dominante del capitale del “centro” nei confronti della “periferia” europea. 
Per egemonia – riprendendo le analisi di Giovanni Arrighi – si intende l’aumento di potere che deriva dal convincere gruppi di interesse contrapposti che si sta agendo nell’interesse generale. La fase del processo di integrazione europea che ha condotto all’euro si spiega essenzialmente in questi termini: un chiaro errore dal punto di vista della teoria economica è stato raccontato come il primo passo verso l’unificazione politica e, dal punto di vista economico, è stato addolcito con massicci influssi di capitale (che hanno sostenuto bolle speculative nella periferia), regalando crescita economica a breve termine e alimentando problemi che si sarebbero manifestati con il tempo: un circolo virtuoso-potenzialmente-vizioso. 
Gli interessi sottostanti tale insieme di politiche sono quelli di stabilizzare i mercati di sbocco del centro dell’Europa, evitando l’incertezza legata ai tassi di cambio che possono ri-bilanciare la competitività  a favore dei paesi della periferia. L’insostenibilità  della situazione è tuttavia palese: la crescente pressione competitiva del capitale “liquido” porta inesorabilmente ad abbassare i criteri di qualità  del credito, sostenendo processi inflazionistici nelle attività  immobiliari e finanziarie nei paesi debitori, che portano alle bolle speculative. Questo processo è aggravato dai meccanismi di remunerazione degli intermediari, che si basano su criteri di redditività  a breve termine, che mal si accomodano con il finanziamento di investimenti tecnologici, gli unici che sono effettivamente capaci di far crescere la produttività  nella periferia, ribilanciando la competitività  a medio-lungo termine.
La crisi europea ha fatto crollare quel progetto, che ha perduto la sua capacità  egemonica, aumentando il deficit democratico del potere del centro dell’Europa: dal potere egemonico si passa al dominio puro e semplice, perché manca il consenso sulla comunanza di interessi tra centro e periferia. Questo spiega l’imposizione di governi “tecnici”, il massacro sociale che è stato condotto in Grecia, ma anche il fiscal compact, che trasferisce ulteriore potere a organismi non eletti (Commissione e European Court of Justice) e si fonda su meccanismi sanzionatori automatici. In questo senso, la discesa in campo di Draghi – quando ha dichiarato che «faremo di tutto per difendere l’irreversibilità  dell’Euro» – ha sì calmato le acque, dando fiato ai paesi periferici, ma si deve intendere in totale continuità  con quel progetto: nella stessa conferenza stampa il governatore della Bce ricordava che, ove l’intervento per il singolo paese fosse necessario, esso sarebbe giunto con la dovuta conditionality, cioè con un elenco di manovre da adottare. 
Se è vero che la posizione di Draghi ha incontrato il disaccordo della Bundesbank, dovuto alla posizione estremamente ideologizzata di quest’ultima, in realtà  il consenso intorno al blocco dei settori esportatori della Germania è cruciale, ed esso ha una esplicita posizione a favore della salvaguardia del mercato comune, come tradizione nella politica tedesca. La non dipendenza della Germania dalla periferia europea e la sua espansione in Cina sono fantasie: la bilancia commerciale negativa verso la Cina è peggiorata di 20 miliardi nella prima decade del nuovo millennio.
Perché l’austerità  è elemento costitutivo di questo dominio senza egemonia? Perché provocando recessione (come ormai ammette anche il Fondo Monetario Internazionale) l’austerità  abbassa la redditività  delle imprese. Essa altro non è che la messa in saldo del capitale della periferia per favore l’irrobustimento del centro. Punto. 
La comprensione di questo principio ha chiare implicazioni per il che fare? Anche se l’euro fu un errore, la sua fine avrebbe conseguenze politiche chiare: la fine del progetto europeo e un ritorno al potere delle destre, per il semplice fatto che la sinistra sull’euro ci ha messo la faccia, mentre l’antieuropeismo è da sempre cavallo di battaglia di Leghe e affini. Come accadde per la sicurezza e le politiche anti-immigrazione, tra copia e originale gli elettori preferiscono l’originale. Non so se abbia restituito dignità  internazionale all’Italia, ma è certo che Monti ha salvato Berlusconi. 
La possibilità  di ricostruire l’area europea su basi sostenibili passa per un radicale ripensamento dei vincoli continentali e degli equilibri di potere nelle sedi comunitarie: la rotta d’Europa è la rotta d’Italia. Incapace di alterare le dinamiche a Bruxelles, Franà§ois Hollande ha finito per zoppicare all’interno e deludere le attese francesi e continentali. Questa lezione non l’ha capita il Pd, che è del tutto allineato sull’attuale agenda di Bruxelles. 
Sempre dal punto di vista della politica interna, del tutto velleitari appaiono anche i progetti che usano la legalità  come punto di partenza della rinascita del paese, al di là  del sicuro richiamo elettorale di figure di carisma come Antonio Ingroia che si stanno spendendo personalmente. Naturalmente il tema legalità  è fondamentale, ma in ambito economico l’idea che la legalità  sia lo strumento per riequilibrare in senso competitivo aree differenti (mettendo le giuste istituzioni laddove ci sia carenza) è ingenua. O peggio, è frutto della visione del capitalismo come un semplice sistema di mercati (benchmark della teoria economica mainstream). In realtà , mentre chiaramente esiste una concorrenza orizzontale tra capitali, il capitalismo è sempre un insieme di politiche che cercano di coordinare la logica di accumulazione con la logica territoriale del potere politico. Tra gli interessi sottostanti la logica di accumulazione c’è quello di risolvere il conflitto verticale capitale-lavoro. L’evidenza mostra che istituzioni pre-capitalistiche, discriminatorie, o anche criminali sono mantenute in vita quando permettono di disciplinare il lavoro. 
Il clientelismo, la mafia, la corruzione non sono le variabili chiave in questa fase, perché semplicemente sono un cancro della vita repubblicana da sempre: un fattore non variabile non può spiegare un fenomeno che cambia. Monti non afferma cose diverse su legalità  e istituzioni, ma alla prova dei fatti quello che conta è il consenso che ha attirato attorno al suo andare “oltre la destra e la sinistra”. Se, come dice Bobbio, la differenza tra destra e sinistra è la posizione sul tema dell’uguaglianza, quello che propone l’Agenda Monti (coerentemente con lo sviluppo neoliberista degli ultimi trent’anni) è di rimuovere il tema dal dibattito. Le conseguenze politiche sono evidenti: 
a) l’appiattimento dell’agenda politica su riforme presentate come inevitabili (There Is No Alternative) genera disaffezione e svilisce il meccanismo democratico, perché dà  maggiori incentivi a partecipare (votando o contribuendo a creare opinione pubblica) a chi ottiene benefici da quelle riforme; b) siccome le riforme inevitabili producono disuguaglianza – perché sono a favore dell’1% o del 10% – trasferiscono potere di pressione e lobbying a questi ultimi finendo per condizionare le decisioni prese a favore di specifici gruppi di interesse. Quando il sistema politico funziona a favore di uno su dieci, allora quello che conta non è la legalità , perché, come indicato precedentemente, questa non è necessariamente tra le priorità  di chi si sta tutelando. Oltre la destra e la sinistra, semplicemente, c’è la destra.

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