Il tribunale toglie il figlio ai boss

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Si tratta di un provvedimento dalla portata dirompente, perché lo Stato interviene in modo così energico, in via preventiva, nel contrasto alla ‘ndrangheta, irrompendo anche negli affetti familiari.

Per le istituzioni, vi è il concreto rischio che quel ragazzo possa agevolmente inserirsi nel casato mafioso d’origine. Così, la corte d’appello di Reggio Calabria ha deciso: il minore deve andare in comunità . Alla porta di casa si sono presentati i poliziotti dell’ufficio minori della questura.

Le cautele adottate per limitare i disagi sono state massime ma, che piaccia o meno, quell’adolescente, di fatto, è stato strappato all’affetto dei suoi cari. La motivazione è perentoria: «Il decreto d’affido non riveste carattere di afflittività », si legge nella nota ufficiale, «e la sua genesi non è data dalla semplice appartenenza del minore ad una famiglia ‘mafiosa’, ma è conseguente ad una ponderata valutazione di una situazione di disagio e di devianza per rimediare alla quale, in assenza di validi modelli educativi di riferimento, viene offerta un’alternativa culturale all’adolescente per evitarne una definitiva strutturazione criminale».

Lo Stato, dunque, si pone quale custode del diritto ad un futuro migliore, soprattutto per chi ha la sfortuna di nascere in un contesto ad alta densità  criminale.

«Ma le assicuro», dice Carlo Macrì, il procuratore della Repubblica del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, «che non vi è alcuna strategia. Guai se così fosse. Noi valutiamo caso per caso e questo è uno dei pochi che stiamo trattando. Ve ne sono al massimo quattro o cinque in tutto il circondario, che coinvolgono i territori di San Luca, ma anche della Piana di Gioia Tauro. Sbagliano coloro che pensano che si tratti del modo innovativo di combattere la ‘ndrangheta».

Non è la prima volta che in Calabria vengono adottate misure drastiche nei confronti di potenti boss della malavita. In passato era toccato a boss del calibro di Pasquale Condello e Giuseppe De Stefano vedere revocata la patria potestà . Ma adesso è diverso, perché quel minore non è più affidato alle cure dei familiari prossimi, ma è sotto tutela dello Stato.

Macrì non esita ad ammettere che «c’è un’enorme difficoltà  a formulare simili richieste. La verità  purtroppo è che all’età  di 15 o 16 anni, provvedimenti del genere vengono vissuti come una punizione, quasi fossero un’anticamera del carcere, perché si lasciano genitori e fratelli. E, mi creda, io non vorrei mai che avvenisse una cosa simile. Tuttavia, è bene rimarcare che il legame non viene reciso all’improvviso ed in via definitiva. C’è un allontanamento, è vero, ma non è totale, perché i colloqui e gli incontri sono molto frequenti. Occorre stare attenti e bilanciare benefici e danni di tali decisioni».

Il dibattito in Calabria è aperto già  da tempo e le posizioni contrastanti non mancano: è corretto ed utile allontanare i figli dalle famiglie di ‘ndrangheta o si creano soltanto insanabili traumi a ragazzi poco meno che maggiorenni? Si può davvero infliggere un duro colpo ai clan, sfaldando quel legame familiare, da sempre punto di forza del crimine calabrese? «Stiamo tentando di dare una nuova opportunità  a questi adolescenti», conclude Macrì, «con la speranza che la colgano positivamente, vivendo nella legalità . Ma guai a pensare che i figli possano essere trattati alla stregua di beni da sequestrare. Neppure la Giustizia può arrogarsi questo diritto».


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