Il ritmo e i sonetti del riscatto

by Sergio Segio | 4 Gennaio 2013 9:14

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Un autore che, dalla sua sicula provincia, riaccredita la linea De Sanctis-Gramsci, ma raddrizzandola in quella Gramsci-Pasolini, è Antonio Catalfamo. Suoi sono (edizione Solfanelli, Chieti, di quest’anno) Il racconto della realtà ; Cesare Pavese. Mito, ragione e realtà ; Dario Fo. Un giullare nell’età  contemporanea; Letteratura e cultura dei ceti subalterni in Italia. Soffermiamoci sugli ultimi due. Rievocano Cielo d’Alcamo, giullare popolano, che nel suo Contrasto accenna, pur se in modo ambiguo, all’istituto della defensa. Quella savia legge, nelle Costituzioni melfitane (1231) di Federico II, stabiliva che una donna violentata o chiunque fosse aggredito, anche Giudeo o Saraceno, invocando il nome dell’Imperatore potesse sottrarre l’aggressore al giudizio dei feudatari locali (alla loro probabile indulgenza nei suoi confronti) e farlo condannare dalla corte imperiale: alla pena di morte nel caso di stupro, anche se commesso a danno di una meretrice. Il verseggiare «popolaresco» avrebbe permeato anche la scuola poetica siciliana nei suoi campioni più noti e persino nel suo mecenate, un Federico II che al suo laicismo teorico-politico, tollerante e averroista, avrebbe intrecciato una sua vena poetica non più modellata sul provenzale amor cortese del poeta-trovatore professatosi servitor fedele a una nivea e incontaminata beltà  femminile. Ma qual è il confine tra il poetare dei popolani e quello dei colti o dei cortigiani che si giovano di contenuti e forme popolari? Non è facile tracciarlo, poiché quasi sempre i popolani che verseggiano hanno anche loro letto autori illustri e se ne fanno eco. Antonio Cammelli detto il Pistoia per la sua nascita (nel 1436), in un sonetto scrive, memore di Dante: «Gente data alla robba, gente grossa, / che di quella vi fate un dio terreno».
Angelo Beolco, detto il Ruzzante, fa teatro bene accetto all’aristocrazia veneziana del ‘500, benché alcuni suoi personaggi contadini, tornati malconci da una guerra combattuta a difesa della Serenissima, scoprano che la loro «mogiére», si è trasferita (per fame) in città  cedendo alle lusinghe di un bellimbusto o di un attardato vegliardo con denari in borsa. In sintonia con quelle commedie, dette Dialoghi, è l’Orazione dal Ruzzante indirizzata al «Siòr Reverendissimo Messier lo Viscovo e Scardenà l Cornà ro». L’autore deplora: come gli scapoli «à§erca de far bèchi i maridà … cossà­ i à§itaini i végn a farse ziògo de noià ltri containi poverà zi». Città  e campagna sono sinonimi di ricchezza e povertà . E «ziògo» (gioco) equivale a sopruso. L’Orazione esorta il potente cardinale a fare nuove leggi. Tra le altre, una che autorizzi anche i villani a prendere quattro mogli e ogni donna a prendere quattro mariti, proprio per frenare quelle «espropriazioni sentimentali» a scorno dei poveracci e porre un argine alle «deferénzie» (differenze) sociali; anche una legge che abolisca, per i contadini, l’obbligo del digiuno nei giorni stabiliti dalla Chiesa (essendo palese che i contadini digiunano tutti i giorni) e costringa invece «i siòri, i prelati, i prévedi, i dotà³ri, le mòneghe e i soldà » a fare continui digiuni. Non manchi una legge per «darghe l’à³rdene ai poeta e sleterà di» di non raccontarci che bovari o pecorai sono giovani pastori «vestà­d de seta e de velàºt» e che le pecoraie son pastorelle con «sotà ne tà¼te ricamà  come fuèsse fiòle del duca de Ferà ra». La comicità  che contraddistingue i contadini agli occhi dei «siòri» si capovolge, qui, nella risibile vanità  dei signori visti dai contadini.
Catalfamo rievoca anche Danilo Dolci, che popolare diventa col trapiantarsi, confabulativo e cooperativo, dal Friuli materno nella Sicilia contadina e nella parlata siciliana. Agli eredi va la sua volontaria povertà ; il suo lascito è esortativo a una sconfinata fraternità -mondo: «Se mi ammazzano/ o mi si rompe il cuore qualche giorno,/ miei cari, non vi lascio/ né case, né terreni, né danari./ Pur amici della terra che vi ha cresciuti, / non sarete paesani di nessuno: / cittadini del mondo, / figli del Nord e del Sud, a disagio/ ogni volta che vi chiuderete in nidi». La sua non-violenza tolstojana non è ripudio, ma filiazione della violenza che fu usata per necessità  dagli oppressi: una violenza che resta, trasfigurata in movenze simboliche, quando i contadini «marciano» per occupare le terre dei padroni, preceduti dal sindacalista comunista. Costui incede su un cavallo bianco e, nell’umile narrazione trascorrente più morbida e pacata per effetto dei suoi a-sintattici anacoluti dialettali, o nell’epopea misera di coloro che in corteo sventolano bandiere rosse e tricolori, questo nuovo condottiero fa rivivere il paladino Orlando, ma prevedendo di morire, poco dopo, ammazzato dalla mafia.
L’ultimo capitolo ci parla di quei poeti-operai che Pasolini chiama così per assonanza, anche «missionaria», con i francesi preti-operai. Anche i poeti operai hanno letto i «libri». Il critico ritrova la dannunziana Pioggia nel pineto quando legge una poesia dell’operaio Tommaso Di Ciaula: «La luna c’insegue./ Mostriamogli il volto/ gli occhi sognanti / le pallide labbra Gli alberi piangono./ Aspetta ed ascolta». Chiudiamo anche noi con una auto-ironia che simula la visualità  distorta o deformante di una vignetta giornalistica: erano mirabili, nel circo equestre, «de’i artisti fenomenali. / I saltava su’l trapessio / come si ghesse le ali. / I faseva salti mortali / da farte vegnere el cuore in gola. / Che brava zente! A’le bestie po’ / ghe mancava solo la parola ma nissun i salti mortali faseva / come i operai per rivare a fine mese». Autore della metafora è l’operaio Lino Naccari.

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