by Sergio Segio | 14 Gennaio 2013 7:41
C’è l’headline («L’Italia che sale»), c’è il simbolo elettorale della lista in bella evidenza e basta. Monti per ora ha scelto di stare un passo indietro e di giocare la sua faccia solo in un secondo tempo. Lo spazio temporale però è stretto perché i manifesti 6×3 possono andare negli spazi a pagamento fino a trenta giorni prima delle elezioni. Scoccato il gong, bisognerà rientrare nei formati mignon previsti dai cartelloni istituzionali, quelli che vengono montati prima delle elezioni e smontati quando le amministrazioni locali se ne ricordano.
Monti aveva detto che sarebbe «salito in politica» e «non sceso in campo» e nella prima scelta pubblicitaria importante ha puntato a trasformare la sua battuta da conferenza stampa in un vero slogan e può anche darsi che si riveli una mossa azzeccata. Del resto le strategie dei leader non seguono sempre linee rette. Pier Luigi Bersani è ossimorico, tuona contro la personalizzazione della politica ma non c’è stazione ferroviaria o grande spazio pubblico dove non troneggi la sua foto. Roberto Maroni ha da far dimenticare Umberto Bossi e quantomeno è più coerente nella scelta di campeggiare anche lui un po’ dovunque. Quale si rivelerà la strategia vincente lo sapremo solo a urne chiuse. Il grande pubblicitario francese Jacques Séguéla, l’inventore della personalizzazione di Mitterrand, richiesto di un giudizio sulle strategie di comunicazione seguite nel 2008 da Silvio Berlusconi e Walter Veltroni sostenne che il Pd aveva azzeccato tutto. Sappiamo invece come andò a finire.
I manifesti-lenzuolo servono davvero o accontentano solo l’ego dei candidati? Raccontano che il britannico David Ogilvy, una delle star dell’advertising moderno, fosse solito dire che «di 100 sterline che investo in pubblicità alla fine ne conta solo una. Il guaio è che non so qual è». Morale: anche i 6×3 servono a fare massa critica anche se, come mette in guardia Silvio Sircana, coordinatore delle campagne elettorali di Romano Prodi, «gestire le affissioni richiede grande professionalità , la scelta della posizione è decisiva e quindi è uno strumento che avvantaggia i partiti presenti capillarmente sul territorio che possono controllare dove viene attaccata la faccia del loro leader».
In Italia la prima volta che abbiamo visto i 6×3 (con tanto di faccia) è stato con Bettino Craxi e il garofano alle elezioni del 1983 (headline: «Un governo per la ripresa»). Prima di lui non è vero che non ci fosse proprio niente. Negli anni 60 Dc e Pci stampavano manifesti decisamente più piccoli e sobri su cui campeggiavano i Togliatti e i Moro con l’avviso che il giorno tale sarebbero stati ospiti di Tribuna politica. Craxi che era culturalmente vicino agli ambienti pubblicitari portò in Italia con l’aiuto di Armando Testa il metodo innovativo che i socialisti francesi con l’accoppiata Mitterrand-Séguéla avevano sperimentato nel ’78 e nell’81. Per gli amanti del genere esiste un manifesto con il leader socialista francese ispiratissimo e con il mare dietro che evoca l’iconografia maoista. «Può sembrare paradossale ma è stata la sinistra a giocare per prima la carta della personalizzazione e non Berlusconi — commenta il consulente politico milanese Mario Rodriquez —. Poi il Cavaliere l’ha interpretata al meglio e ci ha messo il carico delle sue televisioni».
Ma Monti fa bene a scendere in un’arena in cui può apparire un dilettante? Sempre secondo Rodriquez, «è obbligato». Lo slancio di Berlusconi che nei sondaggi riduce le distanze con il Pd può scatenare la rincorsa al voto utile «schiacciando le terze forze e di conseguenza il Professore deve esclamare con forza “ci sono” e “posso farcela”». Si tratterà di vedere se con la scelta di ieri ci ha preso oppure no. «È chiaro che il primo manifesto concede pochissimo al colore. È la scelta di un leader che ci vuol comunicare di non essere né un affabulatore né un seduttore. Un posizionamento coerente con la sua personalità ». Di sicuro sulla Rete il manifesto scelto dai pubblicitari che lavorano per Monti scatenerà la corsa al tarocco. Preparatevi a «L’Italia che male!» o a «L’Italia che pepe» ma potrebbe essere anche un buon segno perché i cinesi ci insegnano che si copiano le cose che hanno mercato.
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