Il Principe della tattica
Da oggi a Roma un simposio sulla sua opera Gabriele Pedullà
Apparsa a stampa nel 1521, l’Arte della guerra è la più ardua delle opere politiche di Niccolò Machiavelli. Non solo Machiavelli parla di una cosa che conosciamo poco e che non ci riguarda più (le pratiche militari classiche e di primo Cinquecento), ma ci chiede di seguirlo in discussioni assai minute sulla forma delle armi, l’ordine dell’esercito in battaglia, la disposizione dell’accampamento. E laddove il Principe si presta a una facile generalizzazione della massime anche più legate alle particolarissime condizioni dell’Italia rinascimentale, qui ogni ipotesi di applicare i suggerimenti machiavelliani al nostro presente sembra cadere di fronte alla fatica che il testo richiede ai non addetti ai lavori.
Paradossalmente, ciò che rende l’Arte della guerra diversa dalla speculazione militare quattrocentesca – la volontà di discutere in maniera quanto più approfondita financo gli aspetti più minuti dell’esperienza bellica – costituisce il principale ostacolo alla sua comprensione e al suo apprezzamento. A conti fatti, l’Arte della guerra è un’opera «tecnica», dicono gli studiosi, e l’aggettivo porta in questo caso con sé una connotazione negativa, per tecnica intendendo la negazione della prospettiva politica.
È possibile però vedere le cose anche in maniera molto diversa, dando un valore positivo a questa parola. La nuova tecnicità dell’Arte della guerra ha implicato infatti da parte dell’autore un enorme sforzo a precisare, correggere, integrare le intuizioni di argomento affine già contenute nel Principe e dei Discorsi assai più che il rifiuto di una dimensione militante. Il gesto con cui Machiavelli si fa teorico della guerra assomiglia insomma al gesto, in tutto e per tutto analogo, con cui il giovane Karl Marx, da filosofo in erba, decide di dedicarsi agli studi di economia, perché solo confrontandosi con essa capisce che gli sarà possibile portare a buon fine il suo progetto di ribaltamento della filosofia hegeliana. Comprendere l’originalità di Machiavelli come pensatore militare è dunque indispensabile per comprendere la sua originalità di pensatore politico.
L’unità molecolare
Probabilmente la maggiore novità dell’Arte della guerra nella storia della teoria bellica è il ruolo straordinario che nelle sue pagine viene attribuito alla dimensione tattica, ovvero al dispiegamento e ai movimenti delle truppe. Ma tattica, al di là dell’etimologia, vuol dire anzitutto una diversa scala operativa, più attenta ai modi in cui reagiscono in battaglia le piccole unità e in cui la loro capacità di reazione e di coordinamento condiziona l’esito dello scontro.
Si tratta di una vera e propria particolarità machiavelliana, che distingue immediatamente l’Arte della guerra tanto dai trattati romani quanto dai loro imitatori medievali e umanistici. Nell’Epitome rei militaris di Vegezio, il più famoso testo antico pervenutoci, c’è il cervello del generale e c’è il braccio dei soldati, l’unità molecolare e l’insieme; negli Stratagemmata di Frontino nemmeno questo. Il dualismo della materia è assoluto. Ci viene detto prima come scegliere la recluta, come allenarla, di quali armi di offesa e di difesa va dotata, come tenere alto il suo morale e garantirsi la sua disciplina anche nei momenti più difficili. E, sul versante opposto, ci vengono illustrate le grandi manovre di accerchiamento e sfondamento o gli stratagemmi del generale che consentono con una trovata repentina di ribaltare la sorte della battaglia. La connessione tra questi due piani rimane invece assai debole, affidata a una generica disciplina militare di cui quasi nulla ci viene detto.
È proprio in questo spazio vuoto che si concentra la riflessione di Machiavelli, a cominciare dalle figure intermedie che devono assicurare la coesione dell’esercito. È assolutamente necessario che un comandante militare parta da qui, «perché lo esercito animoso non lo fa per essere in quello uomini animosi, ma lo esserci ordini bene ordinati», e, anzi, la capacità di manovrare è molto più importante del coraggio individuale e dell’esperienza nella mischia.
Machiavelli sa quanto sia nuovo questo spostamento dalla questione generica della disciplina del soldato alla sua capacità di eseguire movimenti, giravolte, a piegare sul lato o anche ad arretrare senza perdere la posizione. Rispetto a Vegezio, sono dunque gli ufficiali intermedi che qui assumono un ruolo decisivo. Prevedere, capire, escogitare non servono se il corpo dell’esercito non risponde. Così, da questa estrema attenzione alle connessioni tra il generale e la singola unità dipende direttamente anche l’importanza assegnata da Machiavelli alla figura del capodieci, ovvero al decurione romano, che non è altri che il soldato più esperto, che si colloca alla fine della linea, e – come una pietra angolare – sostiene il muro di fanti.
Pure la costante insistenza di Machiavelli sui segnali di battaglia è una diretta conseguenza di questa attenzione senza precedenti alla dimensione propriamente tattica. Affinchè l’esercito non si sfaldi i segnali devono essere inequivocabili e i soldati allenati a comprenderne al volo il senso. Ogni incertezza, ogni ritardo può essere fatale una volta iniziata la battaglia.
Vi è infine un quarto aspetto, di gran lunga in più appariscente: l’uso di alcune grafiche per mostrare senza possibili errori come gli uomini devono disporsi a seconda delle esigenze del momento. La scelta di servirsi di un ausilio visivo obbedisce al senso generale della svolta «tecnica» dell’Arte della guerra rispetto al Principe e ai Discorsi: si graficizza per non descrivere astrattamente quello che va realizzato con grande precisione e si graficizza per essere sicuri che l’esercito reale si disponga esattamente come nell’immagine mentale del condottiero. Ma si graficizza soprattutto per non lasciare nulla al caso, secondo il principio che in guerra anche i dettagli più insignificanti sono «di gran momento».
La matematica della guerra
Gli studiosi di Machiavelli non si sono molto curati di questa novità . Eppure la domanda è legittima: siccome né Vegezio, né Frontino, né alcuno dei teorici militari medievali e umanistici si serve di grafiche di questo tipo, come è nata l’idea di rendere meno astratta e più facilmente comprensibile la disposizione delle truppe servendosi di diagrammi? La risposta ci viene da uno dei trattati de re militari antichi inclusi nella grande raccolta in cui Machiavelli e i suoi contemporanei leggevano Vegezio e Frontino: il De instruendis aciebus del greco Eliano, da poco tradotto in latino.
Il breve trattato di Eliano, lungo appena una trentina delle nostre pagine, avrebbe goduto di grande fortuna nel corso del Cinquecento e sarebbe stato all’origine della riforma militare ideata in Olanda alla fine del secolo da Maurizio di Nassau, eppure sino a oggi è stato ignorato dagli studiosi dell’Arte della guerra. Eliano muove dalla convinzione che il segreto della tattica è la matematica e si propone di insegnare ai suoi lettori a disporre a seconda delle necessità una falange di soldati ma soprattutto a passare senza impedimenti da un ordine all’altro. Così una parte niente affatto trascurabile del De instruendis aciebus si concentra appunto sui diversi modi in cui gli uomini devono non soltanto prendere posizione ma anche «volgersi», vale a dire avanzare, arretrare o scartare di lato in modo da comporre le figure più appropriate per affrontare un determinato tipo di nemico su un determinato terreno.
Rispetto a Vegezio e a Frontino, si apre un gran numero di questioni completamente inedite. Il livello prettamente strategico, della conduzione dell’intera campagna o anche dell’intero scontro, è qui superato da un’attenzione alle singole unità . Da questo punto di vista, il soprannome di «Tattico» con cui Eliano ha spesso circolato per distinguerlo dallo storico Claudio Eliano, appare particolarmente appropriato.
Più che le singole soluzioni di Eliano, Machiavelli sembra aver tratto dal greco un metodo di lavoro e una serie di interrogativi. L’Arte della guerra svetta su tutta la teorizzazione umanistica per completezza dell’informazione, passione per il dettaglio, capacità di vedere i rapporti tra i diversi campi della dottrina militare. Ma soprattutto – sulla scia di Eliano – si distingue per l’attenzione a una «microfisica della battaglia» sino a quel momento ignota alla speculazione rinascimentale.
Non tutti accolsero favorevolmente la novità dell’Arte della guerra. È rimasta famosa per esempio una novella di Matteo Bandello, nel quale si prende in giro la distanza tra la perfezione della teoria machiavelliana e l’assoluta incapacità del suo autore di metterla in pratica, una volta che gliene era stata offerta l’occasione: «si conobbe alora quanta differenza sia da chi sa e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha più volte messe le mani, come dir si suole, in pasta».
È stato facile notare come Bandello non faccia che rielaborare da par suo un preciso topos letterario derivato da un passo del De oratore ciceroniano, dove si racconta dell’ironia di Annibale verso il filosofo peripatetico Formione che pretendeva di discettare in maniera puramente astratta dell’arte bellica, e per giunta in sua presenza. Eppure il fatto che Bandello abbia deciso di mettere in scena proprio Machiavelli offre lo stesso uno spunto su cui riflettere. Bandello prende l’autore dell’Arte della guerra a bersaglio non solo per una generica tendenza all’astrazione ma perché per primo ha creduto di poter offrire una scienza esatta della scala più piccola del confronto, che per la trattatistica tradizionale non era suscettibile di alcuna teoria. La correzione comica della risata arriva insomma nel suo caso a castigare la presunzione dell’ex segretario fiorentino convertito alla matematica da Eliano.
La prima stampa delle novelle del Bandello risale al 1556. È del più grande interesse che un paio di generazioni dopo, in un’opera di teoria militare profondamente influenzata dall’Arte della guerra, nei Paralleli militari di Francesco Patrizi da Cherso troviamo quella che a tutti gli effetti suona come una precisa replica all’accusa di Bandello. Qui, per persuadere il lettore della necessità dell’astrazione in guerra, Patrizi ripete infatti ben due volte un aneddoto di segno completamente opposto e sostiene di aver visto con i propri stessi occhi il grande architetto Andrea Palladio «far fare a 500 fanti con grande ordine e facilità tutti i moti di Eliano» senza avere nessuna pratica bellica ma solo grazie alla lettura di Cesare e di Eliano.
Virtù della connessione
La specularità dei due racconti è troppo perfetta perché sia soltanto il frutto del caso. Il Machiavelli di Bandello e il Palladio di Patrizi ottengono risultati opposti, ma comuni sono la fiducia nella possibilità di estendere ai movimenti dei singoli reparti la teoria grazie all’impiego delle grafiche e della matematica. La grande idea che da Eliano passa a Machiavelli è infatti che non contano solo le armi, i gradi, le macchine, le esercitazioni, la disciplina, i premi e le pene, ma che la teoria militare deve occuparsi soprattutto delle truppe in movimento. Proprio quel che fa la tattica.
Da questo punto di vista, l’indicazione possiede un valore anche più generale. Solo nella connessione e nel movimento (solo nel contesto) gli elementi mostrano la loro virtù o invece i loro difetti. Al livello di scale, il pensiero politico di Machiavelli ambisce per questo a essere un pensiero tattico ben più che strategico: e questo non perché faccia difetto di una prospettiva più ampia o perché nelle sue opere siano assenti i grandi obiettivi (se esiste un teorico della grande politica, questo è senza dubbio proprio Machiavelli), ma perché l’enfasi viene posta ora sulla necessità di stabilire un rapporto tra il progetto generale (il movimento dell’intero esercito) e l’azione del singolo. Non preoccuparsene equivale, per Machiavelli, a immaginare «republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere».
Una delle possibili definizioni del tanto celebrato realismo machiavelliano sarà dunque proprio questa: la capacità di riconnettere il cervello al braccio. Vale a dire di mettere in moto – attraverso un complicato sistema di diramazioni nervose – le periferie più distanti dell’organismo politico o del corpo militare. La passione dei grandi pensatori marxisti del secolo scorso per Machiavelli (Gramsci, Lefort, Althusser) ha anche qui la sua origine.
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