Il pragmatismo ambiguo di San Suu Kyi
YANGON YANGON. Le riforme in atto dalla fine del 2010 in Myanmar, stanno continuando a dare i loro frutti, nel bene e nel male. L’ex militare in pensione Thein Sein, presidente della nazione e capo del primo governo civile dal 1962, ha dato prova di inaspettata indipendenza politica, varando ambiziosi programmi di trasformazione sociale ed economica che pochi credevano potessero essere portati a termine. Le numerose amnistie di prigionieri politici succedutesi nell’arco di questo biennio, hanno permesso di ravvivare il dibattito anche all’interno del movimento democratico, altrimenti monopolizzato dalla Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd). Secondo l’Associazione di assistenza ai prigionieri politici, oggi rimarrebbero nelle prigioni birmane 216 detenuti politici; due anni fa erano più di duemila. Ciò che sorprende in positivo, è che, a differenza di quanto accaduto in passato, ora agli ex reclusi è permesso non solo di continuare la loro attività ideologica e sociale, ma viene chiesto loro dallo stesso governo, di partecipare alle inchieste sulla violazione dei diritti umani. Così Ko Ko Gyi e Zarganar, assieme ad altri rappresentanti dei vari movimenti d’opposizione, fanno parte della commissione che deve far luce sul conflitto nello stato Rakhine e Aung San Suu Kyi è stata messa a capo del team per accertare le responsabilità commesse dalla polizia ai danni dei contadini che manifestavano alla miniera di Monywa.
Altri passi significativi compiuti da Thein Sein, sono stati l’abolizione della censura dei siti internet e dei media, il riconoscimento di alcuni partiti d’opposizione (tra cui l’Lnd di Aung San Suu Kyi), nonché la liberalizzazione delle organizzazioni sindacali e del diritto allo sciopero. In pochi mesi sono sorte ben 180 associazioni indipendenti che dovrebbero tutelare i diritti dei lavoratori in un periodo assai delicato per l’economia della nazione. La proliferazione di così tanti sindacati pone, però, il problema dell’infiltrazione di elementi destabilizzatori. Così come accaduto negli anni ’30, quando i nazionalisti monopolizzarono le contestazioni operaie in Birmania in funzione anticoloniale, oggi si sta assistendo a un processo parallelo in senso inverso: elementi conservatori tendono a radicalizzare le tensioni antigovernative per sbilanciare l’assetto sociale e screditare il governo e il processo democratico. Dalla parte opposta, elementi radicali insoddisfatti della politica di Aung San Suu Kyi e dell’Nld, stanno monopolizzando le masse di sottoproletariato per creare una forza progressista alternativa sia al governo, sia all’Nld.
Con un tasso di crescita annuo che, dalla metà degli anni 2000 si assesta tra il 5 e il 6%, numerose multinazionali non attendono altro che poter sfruttare le immense ricchezze naturali e il basso costo di manodopera. L’insensato boicottaggio imposto da Stati uniti e Comunità europea, in vigore dall’inizio degli anni Novanta, ha impoverito la popolazione, ma non i generali, i quali hanno fatto affari d’oro consegnando letteralmente il paese alla Cina e, in parte, all’India.
Impazienti di partecipare al depauperamento delle risorse birmane, nel 2012 anche i governi occidentali hanno deciso che era giunto il momento di eliminare o sospendere le sanzioni. Compagnie che già operavano in Myanmar infischiandosene dell’embargo, come la Total e la Chevron, hanno così potuto consolidare i propri investimenti, mentre altre che commerciavano tramite paesi terzi, ora lo fanno direttamente. I cambiamenti si vedono, eccome, specialmente in quei campi dove il guadagno è immediato e gli investimenti minimi.
Il turismo, per esempio. Da quando Aung San Suu Kyi ha tolto il suo veto a visitare la nazione, i turisti sono aumentati del 30%. Di pari passo sono saliti anche i prezzi, che si ripercuotono sul costo della vita della popolazione più povera. Compagnie, come Le Meridien, hanno già messo gli occhi su Ngapali, una delle più belle e incontaminate spiagge dell’Asia, mentre nel 2013 cominceranno i lavori per la costruzione di un nuovo aeroporto a Yangon capace di accogliere 10 milioni di passeggeri all’anno.
Il Myanmar rischia quindi di diventare una seconda Thailandia, ma senza le infrastrutture capaci di assorbire una tale massa di turisti, la maggior parte dei quali incapaci del minimo adattamento. Il delicato sito archeologico di Bagan sarà la meta più gettonata, ma anche la più sfregiata da questo esercito armato di flash, creme solari e ombrellini.
Desideroso di mostrare all’occidente quanto reale sia l’intento del suo governo a riformare l’intero paese, Thein Sein sembra stia procedendo a casaccio, senza una linea di pensiero ben definita, approvando quasi tutto quello che all’estero viene visto come ostacolo agli investimenti e alla democratizzazione del paese. Ma, come da più parti si fa notare, le riforme precedono la reale capacità del popolo di assorbire i cambiamenti. E in molte parti creano più danni che benefici. Se n’è accorta la stessa Aung San Suu Kyi, che da quando è uscita dalla sua prigione al 54 di University Avenue, ha dovuto confrontarsi con la realtà della politica, incappando in clamorose debacle. Poco avvezza alle critiche, dopo anni di lodi e di adulazioni, l’ex Lady ha risposto con acidità a chi le chiedeva un parere sui conflitti in atto nello stato Kachin e in quello Rakhine, facendole notare il suo silenzio sulle continue violazioni di diritti umani nei confronti delle minoranze etniche e religiose.
In particolare, i disordini in atto nello stato Rakhine, rischiano di diventare un caso internazionale. Privata dei suoi diritti di cittadinanza, la minoranza musulmana Rohingya (circa 800.000 persone su una popolazione di 3 milioni di abitanti), è oggi bersaglio della maggioranza buddista, appoggiata dal governo centrale e dalla stessa Lega nazionale per la democrazia, i cui membri sono, per la maggior parte, di etnia bamar e di religione buddista. Il conflitto, che risale all’epoca coloniale, quando sotto il raj britannico migliaia di indiani si trasferirono nella regione dell’Arakan ottenendone la residenza, ha avuto il suo drammatico inizio nel maggio 2012, quando tre musulmani stuprarono una ragazza Rakhine.
Da allora gli scontri tra le due comunità si sono moltiplicati causando centinaia di morti e migliaia di profughi interni, quasi tutti Rohingya. Uno dei motivi reali del conflitto è che il 70% dei musulmani dello stato Rakhine avrebbe tutte le carte in regola per chiedere la cittadinanza birmana (oggi negata), contrastando così lo strapotere dei buddisti. Lo stato birmano ha sempre negato lo status di cittadinanza, non riconoscendo ai Rohingya neppure la propria identità , definendoli semplicemente bengalesi e, come tali, cittadini del Bangladesh.
Proprio quest’ultimo escamotage è stata la chiave che ha utilizzato Aung San Suu Kyi per divincolarsi imbarazzata dalle pressanti richieste di impegno provenienti dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni democratiche interetniche del Myanmar. Secondo Suu Kyi, infatti, il fatto che i “bengalesi” (come lei stessa li ha chiamati), non abbiano rappresentanza nel parlamento birmano, avrebbe impedito a lei e all’Nld di intervenire a loro favore.
Ad aumentare l’irritazione interna e internazionale, è stata la richiesta fatta della Lady al parlamento birmano, di inviare più truppe del Tatmadaw (l’esercito nazionale) per sedare le rivolte. Parole pesanti, che certamente non sarebbero state pronunciate da una Aung San Suu Kyi in condizioni di arresti domiciliari. Pochi mesi dopo, il pragmatismo della nuova veste politica della leader democratica, si è ripetuto a Monywa, dove da tempo è in corso un braccio di ferro tra i contadini locali e la joint-venture sino-birmana che vorrebbe ampliare il sito minerario spostando 26 villaggi.
Forti dell’esperienza di Myitsone, quando nel 2011 Thein Sein aveva sospeso i lavori della diga salvando dal trasferimento coatto migliaia di contadini di etnia Kachin, gli abitanti di Monywa chiedevano il medesimo trattamento. Ma, a differenza di Myitsone, Monywa non si trova in un territorio dove un potente esercito etnico (la KIA, Kachin Independent Army) sta trattando il cessate il fuoco con il Tatmadaw. Così il governo di Nay Pyi Taw si è defilato fino a quando la polizia locale è intervenuta pesantemente a sedare le rivolte dei manifestanti. A quel punto Thein Sein, ha istituito una commissione di inchiesta presieduta da Aung San Suu Kyi per far luce sulle responsabilità dei fatti.
La Signora si è recata sul posto e, deludendo tutti, ha spiegato che, pur avendo i contadini tutte le ragioni per opporsi a un trasferimento, il paese deve far fronte agli impegni assunti per non perdere il proprio onore e mettersi in cattiva luce di fronte gli investitori stranieri. I dissensi suscitati dalle parole e dall’atteggiamento di Aung San Suu Kyi e del suo partito nel movimento democratico, sono stati evidenziati dalla sostituzione, avvenuta ad appena due giorni dal discorso di Monywa, di 14 dei 30 membri della Commissione. Tutti i componenti rimpiazzati facevano parte di gruppi radicali che avevano appoggiato le istanze dei dimostranti e che, quindi, non avevano gradito le parole della loro presidente.
Dal 2010 il Myanmar ha imboccato la strada per la democrazia, ma come negli anni ’90 l’embargo aveva sospinto il paese nelle braccia della Cina, ora la frenesia di dimostrare a Usa e Europa di essere sulla strada giusta, sta accelerando un processo che rischia di sfuggire di mano anche a chi, come Aung San Suu Kyi e l’Nld, ha lottato strenuamente per ottenerlo.
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