by Sergio Segio | 2 Gennaio 2013 8:51
Il cineasta portoghese disegnava tutte le traiettorie del mondo con i corpi di attori e attrici e le loro emozioni indecifrabili. Una polifonia di viaggi interiori Passeggeri mortali, nei film di Paulo Rocha le figure si muovono – già segretamente presaghe che diventeranno a loro volta fantasmi – nel mondo degli elementi naturali (l’acqua, la terra, l’aria, il fuoco), ma anche tra le vestigia e le tracce cosparse ovunque dai passi delle generazioni. Ogni personaggio è in rapporto non solo con gli altri ma col dio del luogo. Magia segreta della natura, mistero del passato e dei suoi abitatori. Il cinema di Paulo Rocha è l’arte di un grande paesaggista (barocco? impressionista? giapponese?), la pittura di una natura eternamente mutevole e vibrante, della metamorfosi infinita delle figure e delle apparenze fugaci del mondo; ma è anche trasalimento della memoria, affioramento delle tracce, incontro con le rovine lasciate dal tempo, dialogo e danza coi morti. Così racconta la genesi di A ilha dos amores: «Si può dire che mentre mi aggiravo per i cimiteri di Tokushima mi apparvero dei fantasmi di alcune donne e di un uomo che mi trascinarono con loro».
La «vanitas» nel paesaggio
C’è una fotografia che ritrae da una certa distanza Rocha all’inizio degli anni Ottanta con una piccola cinepresa tenuta a mano, circondato e quasi assorbito dalla vegetazione rigogliosa e ibrida (già anch’essa quasi un pastiche o un collage naturale, siamo a Sintra!), e sulla destra la presenza silenziosa di una croce: dentro questo paesaggio, in cui manca solo il teschio della «vanitas», avanza l’esile figura del passeggiatore solitario, il transeunte cineasta vampiro. Ogni luogo è già in sé una «finzione» popolata di spiriti, di infinite storie da raccontare, di abitanti del passato che non sembrano intenzionati a sparire e dileguarsi ma tornano a parlare ai provvisoriamente vivi. Qui – nei fantasmi del luogo – è l’origine del desiderio di cinema di Paulo Rocha: tra il cà´té «realista» della flagranza, il rischio il respiro l’emozione propria di ogni inquadratura, e quello visionario del racconto si instaura una tensione erotica enorme.
Ho conosciuto abbastanza Paulo per poter ricordare questo suo modo visionario di fantasticare, di immaginare infinite storie e personaggi a partire da un luogo. Lo portai un giorno a Cerveteri e Tuscania, ed era come se sentisse la presenza dei loro antichi abitatori e da lì – dal contatto col terreno, con le pietre, con le tombe – cominciasse a sognare a occhi aperti. Mi portò in auto a Lisbona a ripercorrere tutti i luoghi di Os verdes aà±os, un film in parte autobiografico e misteriosamente impregnato dello spazio e del tempo di una città in trasformazione in un preciso momento storico (1963). Diceva di aver imparato da Renoir e dai giapponesi «la vibrazione dei corpi nel paesaggio, il battito dei corpi contro le pietre, il trascorrere della luce…». Si sentiva molta sensualità e struggente malinconia nella percezione dell’insorgere e del passare del tempo, del suo irrimediabile svanire, nel muoversi erratico e senza meta di Isabel Ruth e Rui Gomes nei terrains vagues della periferia in cui facevano fatalmente naufragio coi loro amori frustrati. Si sentiva il suo sguardo nutrirsi della realtà esteriore sensibile, tangibile e percorribile coi propri passi, e renderla materia di una pulsione poetica visionaria, di un desiderio di racconto ancestrale, di magnificenza mitica, che sembra affondare le radici perfino in una cultura orale (geniale, ad esempio, in O Rio do ouro, la colonna sonora di Francisca ascoltata come radiodramma in un bar, in un film che è anche una cantata popolare). Ma per lui era questo il modo per confrontarsi con le avventure più estreme della modernità , che ben conosceva nella musica, nella poesia, nelle arti.
Erotismo malinconico
A superamento di tutte le proprie consapevoli fragilità , introspezioni, malinconie, solitudini e disperazioni si coglieva in lui l’estrema sensibilità per l’atto erotico del filmare, l’energia del gesto fisico di un action painting in cui è l’anima stessa – o l’inconscio – che appaiono come un fiore nell’atto di dischiudersi e librarsi senza rete nel movimento del film. Da Renoir – di cui era stato assistente sul set di Le caporal épinglé – diceva di aver imparato che non c’è alcun metodo nel fare cinema. Ma da Renoir aveva imparato anche l’amore immotivato, gratuito e puro per gli attori e per i personaggi. Aveva nei suoi film un rapporto fisico fortissimo con gli attori, «corpi che ardono, che soffrono, irraggiando energia». Dalla sensitiva Isabel Ruth all’inquietante Joana Bà¡rcia, alle giapponesi di A ilha dos amores, meravigliose figure femminili attraversano il suo cinema con una presenza di misteriosa e indecifrabile fisicità – slanci pulsazioni isterie ribellioni ardori eccessi inesplicabili. Mentre Luàs Miguel Cintra lo accompagna come complice e alter ego nelle avventure del modernismo e dell’antinaturalismo, nel gioco del teatro a partire da Pousada das chagas, attraverso A Ilha dos amores e O Desejado, fino a A Raiz do coraà§à£o.
Rocha è questo cineasta dello spazio e del décor, dei corpi che vi si muovono e vibrano, il suo cinema disegna gli spostamenti, le traiettorie, le attrazioni e repulsioni dei personaggi nel gran teatro naturale e artificiale della scena del mondo. Quest’arte presuppone il gesto stesso del cineasta, il movimento della cinepresa nell’attraversare e percorrere lo spazio appropriandosene. Il piano-sequenza non è qui strumento per il «realismo» del cinema moderno (se mai lo è stato), piuttosto l’equivalente della pennellata di un pittore-cineasta che, non diversamente da Mizoguchi, traccia un ideogramma, estrae dal continuum una figura metrica e geometrica di una polifonia complessa e sensuale di cadenze e movimenti della messa in scena (con il suo seguito di parallelismi corrispondenze rime echi riflessi) che trova probabilmente il suo vertice assoluto in O Desejado.
L’estremo oriente
Nel clima asfissiante e chiuso di un paese politicamente, culturalmente e moralmente imprigionato, era questione vitale uscirne fuori, in viaggi spesso solo interiori e talvolta anche esteriori (Rocha a Parigi, Lopes e Monteiro a Londra), nella consapevolezza che «ogni poesia è esilio». Ma Paulo ha finito per andare molto più lontano degli altri. A distanza di cinquant’anni appare chiaro in fondo che Os Verdes anos e Mudar de vida non avevano poi molto a che vedere con le Nouvelles Vagues, e sembrano semmai due film germinali per tutta la generazione portoghese recentissima. Possiamo dire a posteriori che con Mudar de vida (un film capitale per Pedro Costa), Rocha aveva guardato il mondo del Furadouro e della propria infanzia con uno sguardo già «giapponese», anche nella resa della luce (ancora una volta: «ritrovavo nei giapponesi un aspetto che avevo incontrato in Renoir, l’interazione tra i paesaggi, i corpi, le forze della natura», in fondo nient’altro che la ricerca dell’impossibile armonia tra corpi e luoghi…).
Forse anche per la natura stessa dell’immaginario portoghese, siamo sempre sotto il segno del déplacement, dello sconfinamento. Per oltre un decennio (1968-82), con una strenua lotta alimentata da passione e ossessione totali, ha inseguito in Estremo Oriente come una sorta di proprio doppio il fantasma e le tracce di Venceslau de Morà£es, lo scrittore portoghese della fine del XIX secolo fuggito e morto in Giappone. Questo naufragio nell’Isola degli amori di Camàµes (A Ilha dos amores) è il suo momento di più programmatica audacia avanguardistica, opera-limite «formalista» e monumentale, impresa folle eppure di serena bellezza, decantazione massima del piano-sequenza (quasi in contemporanea con Amor de perdià§ao e prima di Le soulier de satin), ma che si scioglie e si arricchisce a contatto del suo stupendo «doppio» documentario e autobiografico, A Ilha do Morà£es.
Con un percorso inverso, dal Giappone verso il Portogallo, O desejado (forse il suo film maggiore e insieme più incompreso) opera nel 1987 uno «spaesamento» altrettanto radicale. Il romanzo di Genji (già di per sé un’opera sul passaggio del tempo, sulla malinconia del trascorrere di tutte le cose) è trasposto nel Portogallo del periodo post-rivoluzione. Ne risulta un grande film politico onirico visionario sulla seduzione e sul potere, sull’inanità delle passioni e in fondo sulla vanità (come sarà anche qualche anno dopo l’altrettanto incompreso A Raiz do coraà§à£o), collage di tragedia e commedia, di romanzo e teatro (anche e soprattutto lirico, Don Giovanni non è lontano). Come in La règle du jeu o Eléna et les hommes Rocha gioca nel segno della polifonia, delle variazioni di tempo musicale e degli spostamenti di luoghi, con registri complessi che raggiungono un equilibrio «classico», il teatro della vita con le sue maschere e i suoi abissi. Questa polifonia (di molti luoghi e personaggi) sarebbe stata spinta ancora oltre in Il naufragio di Sepàºlveda, il progetto successivo, quello produttivamente più complesso e costoso che egli inseguì vanamente per una decina d’anni. Piaceva molto anche all’altro Rocha, Glauber, ed era ispirato alle cronache della Histà³ria-Trà¡gico-Maràtima, relazioni di viaggi e naufragi di portoghesi su tutte le coste delle mondo, con la loro infinita costellazione di tombe.
Ora anche Paulo se n’è andato – pochi mesi dopo Fernando Lopes – dopo una lunga malattia e in un isolamento crescente, praticamente quasi dimenticato da un ambiente cinematografico internazionale sempre più cinico, ignorante e vacuo.
Il mutare della vita
Fin dal titolo, Vanitas – film maledetto e invisibile, proiettato (e premiato) solo a Torino nel 2004 e ai Mille Occhi nel 2007 – appare già come una sorta di summa derisoria e fragile, a suo modo un film d’avanguardia estrema. Vi viene riassunta la dimensione cosmica sempre presente nei suoi film: il ciclo della nascita e della morte, la rinascita e il «mutare vita», lo scorrere perenne del fiume (il cimitero qui è a lato del fiume, attraversato dal fischio dei treni che passano), la festa popolare come danza dei morti. La reinvenzione fiammeggiante della pittura attraverso il digitale diventa un fuoco d’artificio barocco o forse solo un fuoco fatuo. È vanità anche il cinema, anch’esso «dissonante comunione con il mondo che costantemente cambia» (Jorge Silva Melo).
Una delle sequenze più miracolose girate da Rocha è il lunghissimo piano sequenza di Oliveira o arquitecto in cui il maestro più anziano racconta dalla semioscurità di come fece la fotografia di Angélica morta, un’esperienza reale che aveva vissuto negli anni Trenta e che gli aveva ispirato all’inizio degli anni Cinquanta la sceneggiatura di un film allora non realizzato. Lo sarà solo nel 2010 (O estranho caso de Angélica) , e Rocha a un certo punto aveva pensato di fare lui stesso il film come regista. Nel tempo di dieci minuti qualcosa che appartiene a entrambi si è fissato per sempre nel racconto di una morte-resurrezione.
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L’ultimo film / IL RITORNO ALLE ORIGINI DEL NORD
«Se io fossi un ladro….», storia di famiglia (e arte) con collage
«È destino, finisco sempre per tornare sul luogo del delitto». Come Antà³nio Reis (che scrisse i dialoghi di Mudar de vida), Paulo Rocha è un uomo del Nord del Portogallo. Lo sono anche naturalmente Oliveira e Agustina Bessa Luàs, le cui origini sono molto più aristocratiche o alto-borghesi, tra Porto e le «quintas» del Douro. Lui era figlio di un commerciante, con ramificazioni in Brasile, e aveva vissuto l’infanzia nel Furadouro e a Porto prima di recarsi a Lisbona all’Università . Era nutrito dall’immaginario popolare e contadino della regione, come si vede dalle magnifiche scene musicali e di danza di Mudar de vida e di O Rio do ouro e nel bel film dedicato a lui e Reis da Pierre-Marie Goulet, Encontros. E, al pari di Oliveira, dall’industriale e commerciale Porto aveva attinto anche l’attrazione per il modernismo e il cosmopolitismo, per non dire dell’avanguardia, più che dalla Lisbona adagiata per decenni nell’agonia coloniale.
Al nord aveva anche appreso il modo di fare cinema coi mezzi di bordo (in un paese dove il cinema praticamente non c’era più) da Oliveira allora artigiano isolatissimo e quasi dimenticato. E i suoi rapporti con il grande Antà³nio Campos, provinciale di Leira altrettanto solitario, di cui Rocha fu il primo estimatore, lo spingevano nella stessa direzione. Rifiutò sempre di venire adottato da qualche produttore, volle produrre lui stesso i propri film (pagandone un alto prezzo), e rivendicava con orgoglio Suma Filmes come la più antica casa portoghese in attività .
Negli ultimi anni Rocha aveva immaginato una sorta di «ultimo film», che chiudesse la sua opera, e che era anche un ritorno alle origini del Nord. Dedicato alla figura di suo padre e alla storia della sua famiglia, ambientato a Porto e nel Furadouro, era anche un modo di tornare sui luoghi dove aveva girato Mudar de vida. Vi aveva riunito i suoi attori di sempre (da Isabel Ruth a Luàs Miguel Cintra a Joana Bà¡rcia), insieme all’équipe fedele di Rio do ouro, di A Raiz do coraà§à£o, di Vanitas. Ebbene, questo film esiste, si intitola Se eu fosse ladrà£o… roubava (Se fossi ladro… io ruberei), ho potuto vederne due differenti versioni tra la fine del 2010 e la metà del 2011. Non si poté mostrare a Locarno quell’anno, ma nell’aprile scorso Paulo mi scrisse che era terminato, e che lo aveva sottoposto a Cannes e Venezia (dove evidentemente fu rifiutato). Della sceneggiatura era riuscito a girare solo una parte (tra cui una sequenza magica con una danza di Isabel Ruth sulla stessa spiaggia al tramonto di Mudar de vida e sulla musica di Paredes di Os verdes anos, che sembra scaturire da un’esperienza spiritica). Poi aveva dovuto interromperlo non tanto per motivi di salute, quanto per esaurimento del budget. Ecco dunque farsi avanti l’idea di montare insieme al nuovo girato estratti da tutti i suoi film precedenti – non solo da Mudar de vida e Rio do Ouro che vi sono strettamente collegati per paesaggio e universo – in una ricapitolazione finale. (un’idea di rimontaggio che già aveva avuto Pollet in Contretemps e che ha praticato recentemente e a modo suo Julio Bressane in Rua Aperana 52 e O batuque dos astros). Non so fino a che punto Rocha abbia potuto lavorare ancora a un ulteriore montaggio nel corso del 2012. Certamente già a quello stadio era pervenuto a un’opera che considerava di fatto definitiva e che ben rappresenta le due pulsioni della sua opera, la poetica visionaria e il collage modernista, in un affascinante esempio (come ne esistono nella storia dell’arte) di «non finito» voluto dall’autore.
Del resto Rocha ha sempre impresso un carattere di laboratorio e di sperimentazione al proprio lavoro, come dimostrano anche tutti i suoi film «minori», le piccole isole che non meno delle grandi contribuiscono a formare l’arcipelago della sua opera: Pousada das chagas («Acto» modernista sul museo di arte sacra di à“bidos), Mà¡scara de aà§o contra abàsmo azul (sul pittore Amadeo de Sousa Cardoso), O senhor Portugal em Tokushima (ancora su Wencesalus de Moraes, da uno spettacolo teatrale), i due «Cinéastes, de notre temps» (Oliveira o Arquitecto e Imamura le libre penseur), Camàµes, tanta guerra tanto enganos (composizione teatrale a partire dalle liriche del poeta), e As sereias (che rielabora in una fantasia orgasmica il girato sui fuochi d’artificio della notte di San Giovanni a Porto già utilizzato in Vanitas).
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