Il nuovo Manifesto
La fine del 2012 non ha portato alla fine (tanto annunciata) del Manifesto, che con il nuovo anno è tornato in edicola avendo allontanato temporaneamente «l’urgenza della vendita» della testata e avendo salvato, per il momento, «la maggior parte dei posti di lavoro». L’annuncio è stato fatto con un editoriale pubblicato sabato 29 dicembre, in cui si parlava della fine della fase della liquidazione coatta amministrativa, della nascita di una nuova cooperativa e dell’autorizzazione ufficiale da parte del ministero dello Sviluppo economico di affitto della testata a questo “nuovo” collettivo, nato sulle ceneri del vecchio.
La storia dell’ultimo anno al Manifesto, quella almeno di una crisi finanziaria divenuta sempre più profonda e che ha messo a rischio, come mai prima, l’esistenza del giornale, è stata raccontata pubblicamente sulle sue pagine. A questa crisi irreversibile si è accompagnata anche una profonda spaccatura nella redazione, che ha portato all’abbandono di alcuni dei fondatori e di alcune delle più importanti e autorevoli firme del giornale, con lettere da parte di chi se ne andava e risposte (in qualche caso molto sbrigative) da parte di chi restava, che a molto alludevano e poco spiegavano. Per capire le ragioni degli uni e degli altri è però necessario ripercorrere le fasi del dissesto economico.
Il Manifesto è del Manifesto
Il Manifesto è nato nel 1969 come rivista politica mensile per trasformarsi in quotidiano il 28 aprile 1971 con 60 milioni di lire di investimento. Tra i fondatori, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Lucio Magri, Massimo Caprara, Luciana Castellina e Valentino Parlato. Era composto da quattro pagine, costava 50 lire contro le 90 degli altri giornali e già allora non aveva editori, ma era gestito da una cooperativa formata dagli intellettuali e dai giornalisti che ci lavoravano. La proprietà era dunque di un collettivo che non si distingueva dalla redazione e dalla direzione: tutti i lavoratori e le lavoratrici ne facevano parte.
A partire dal 1995 il giornale non è stato solo di chi lo faceva ma anche di chi lo leggeva. Quell’anno venne infatti creata una spa ad azionariato popolare: una società in cui il 78 per cento delle quote era in mano alla cooperativa editrice (103 soci tutti dipendenti o ex dipendenti) e il restante 22 per cento suddiviso tra 6.826 soggetti molto diversi tra loro, che quell’anno acquistarono azioni pari a 5,4 miliardi di vecchie lire. Tra questi ultimi la maggior parte erano azionisti singoli e abbonati. Piccole quote furono però acquisite anche da cooperative, enti sindacali, associazioni e strutture di partito (circa lo 0,1 per cento). Grazie a quest’operazione vennero fatti alcuni investimenti tra cui, per esempio, la pubblicazione gratuita su Internet tutto il giornale: all’inizio del 1995 il Manifesto fu il primo quotidiano nazionale ad avere un suo sito. Nel 2005 l’accesso alla versione integrale degli articoli fu poi ristretto ai soli abbonati. L’unico patrimonio della spa era (ed è ancora oggi) la testata, che a quel tempo venne valutata oltre 28 miliardi di lire (14,5 milioni di euro): all’epoca ci lavoravano 146 persone (86 giornalisti e 60 poligrafici) e le vendite erano al massimo storico (51.082 copie al giorno).
La liquidazione coatta amministrativa
Da allora molto è cambiato, nonostante le voci che nel bilancio del giornale fanno riferimento ai ricavi restino sostanzialmente le stesse. E sono quattro: vendita in edicola e abbonamenti (tra il 54 e il 58 per cento dei ricavi totali nel periodo che va dal 2006 al 2010), pubblicità (la cui percentuale, circa l’11, è per il Manifesto molto più bassa rispetto a quella di quasi tutti i gruppi editoriali), sostegno dei lettori (tra l’1 e il 9 per cento dei ricavi) e contributo pubblico per l’editoria con una percentuale che in quegli anni andava tra il 23,4 al 27,4 per cento.
A partire dalla fine degli anni Novanta tutte queste voci hanno subito riduzioni significative: del 33 per cento solo dal 2006 al 2010. Il Manifesto ha attraversato lunghi periodi di crisi e di fatiche, segnati sempre da appelli e richieste di aiuto ai lettori: nel 2009, per esempio, per un giorno il Manifesto costò 50 euro. La ristrutturazione aziendale e il sistematico contenimento di ogni costo (incluso quello del personale) non sono stati però sufficienti a risanare la situazione, soprattutto a causa della riforma dell’editoria e della riduzione drastica dei contributi pubblici. «Traducendo in cifre, i contributi che nel 2009 ammontavano a 3,7 milioni di euro, nel 2010 sono stati contabilizzati per 3,4 milioni di euro, sono stati appostati nel budget di previsione 2011 per 2,3 milioni di euro e risultano a oggi ridotti a 1,1 milioni di euro».
Per questo, e a causa dei conti in passivo, nel febbraio del 2011 i soci hanno deciso all’unanimità (come unica alternativa al fallimento) di avviare la liquidazione coatta amministrativa. «Tecnicamente, la Lca è una particolare procedura concorsuale prevista soltanto per alcune categorie d’imprese (tra cui appunto le cooperative editoriali) il cui dissesto o le cui anomalie di funzionamento possono ripercuotersi negativamente su un numero elevato di altri soggetti. Per gli interessi (specie di natura pubblica) coinvolti, la procedura è affidata all’autorità amministrativa (il ministero dello Sviluppo economico) che si occupa dell’apertura e della gestione della procedura. La Lca viene disposta prevalentemente quando un’impresa è in stato d’insolvenza ovvero in una situazione di crisi che non permette più all’impresa di adempiere con regolarità alle proprie obbligazioni».
L’asta di vendita e il futuro del giornale
Il 15 febbraio del 2012 la Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana ha certificato l’insolvenza della cooperativa editrice “manifesto spa”, avviando di fatto la liquidazione, e nominando tre commissari liquidatori (gli avvocati Raffaele Cappiello, Mauro Damiani e Licia Polizio) che da quel momento in poi si sono occupati di chiudere la cooperativa assumendo nel frattempo anche la gestione provvisoria del giornale pagando gli stipendi, le bollette, negoziando gli ammortizzatori sociali e chiedendo, per non aumentare il debito del giornale, licenziamenti immediati.
I liquidatori, una volta assunto il loro ruolo, hanno anche sospeso tutti i pagamenti ai collaboratori non dipendenti, inclusi quelli di molti che, negli anni, sono andati in prepensionamento per aiutare le casse del quotidiano continuando a fornire gratuitamente la loro collaborazione. Dopo settimane di discussioni e assemblee a giugno è stato trovato un accordo con il ministero del Welfare per i 68 dipendenti rimasti: una cassa integrazione a rotazione senza eccezioni che ha dimezzato l’organico lasciando al lavoro 36 giornalisti per turno.
Neanche la gestione controllata però poteva essere prolungata all’infinito e così, anche a causa di un ulteriore calo delle vendite (ormai sotto le 15mila copie in edicola), i liquidatori hanno deciso di non poter più prolungare l’esercizio provvisorio oltre il 31 dicembre 2012 e hanno avviato ufficialmente le procedure per la vendita della testata. Entro il 17 dicembre chiunque fosse interessato poteva presentare la propria «proposta vincolante e irrevocabile» presso uno studio notarile di Roma. Le offerte d’acquisto che sono arrivate (e che ufficialmente non si conoscono) sono però state giudicate ben al di sotto del valore della testata (quantificato dai liquidatori in 5,47 milioni di euro).
Immediatamente dopo il fallimento della vendita, il 18 dicembre, è nata al Manifesto una nuova cooperativa (più ridotta rispetto alla vecchia e composta attualmente da oltre 40 soci) che da gennaio 2013 è tornata a gestire il giornale in totale autonomia affittandolo – ai sensi della legge 416 del 1981 – per 20 mila euro dai commissari liquidatori che d’ora in poi si dedicheranno esclusivamente alla liquidazione dei debiti della vecchia cooperativa. Il pagamento dell’affitto mensile fornisce una rendita alla liquidazione stessa rendendo meno urgente la questione della vendita.
Le ragioni di chi se ne è andato e quelle di chi è rimasto
La procedura di liquidazione e la richiesta di riduzione dell’organico pretesa dai commissari hanno causato spaccature e tensioni all’interno della redazione tra chi si sarebbe dovuto salvare o lasciar andare via. E hanno portato all’abbandono spontaneo di alcuni e alcune che il giornale l’avevano fondato e di altri che erano considerate “firme storiche”: Vauro a ottobre; Rossana Rossanda, Joseph Halevi e Marco d’Eramo a novembre; Alessandro Robecchi e Valentino Parlato a dicembre. Nelle loro lettere, tra l’altro, si parla di «indisponibilità al dialogo», di appropriazione del giornale da parte di «un manipolo» e di «rottamazione dei prepensionati» rimasti «esclusi dalla progettazione del giornale».
Sempre a dicembre altri 11 giornalisti hanno deciso di “sospendere” l’uso della loro firma: Loris Campetti, Mariuccia Ciotta, Astrit Dakli, Ida Dominijanni, Galapagos (Roberto Tesi), Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Francesco Paternò, Francesco Piccioni, Gabriele Polo, Roberto Silvestri. Tre di loro erano redattori a tempo pieno (Paternò, Piccioni, Polo), gli altri che avevano accettato il prepensionamento per ridurre i costi e scrivevano gratuitamente per il giornale.
Le ragioni del loro “distacco” si trovano riassunte in un editoriale intitolato “Così vicini così lontani”. La premessa è che «(…) poco o nulla di quello che per noi è stato ed è il manifesto sopravviveva ormai in via Bargoni». La questione centrale (ribadita in questo articolo collettivo, ma nominata anche nei singoli interventi di chi non si sentiva più parte del giornale) sembra essere quella di una direzione e di un gruppo di gestione (che si è poi costituito nella nuova cooperativa) che ha logorato il tessuto delle relazioni interne e il terreno del confronto politico-editoriale, compromettendo la discussione sul futuro della testata: in un clima sempre più spoliticizzato (o meglio: «nel collassare di alcuni principi elementari della democrazia e della Costituzione», spiega Valentino Parlato) le diverse posizioni politiche e culturali da sempre presenti al Manifesto non avrebbero più avuto possibilità di espressione e di mediazione.
Di più: i fondatori e la ‘generazione di mezzo’ che hanno deciso di lasciare il giornale sarebbero divenuti l’oggetto di una vera e propria campagna “rottamatoria”: il criterio stesso di riduzione dei soci per la nuova cooperativa sarebbe stato fatto «solo in base alle posizioni espresse durante le assemblee» e non «in base alle funzioni necessarie al nuovo giornale» non essendo mai stato elaborato un piano editoriale per il rilancio della testata diventata negli ultimi anni sempre più “omologata”, sempre più conforme all’agenda mainstream e sempre più affidata a firme “esterne”, sia pure eccellenti. La fase, infine, della liquidazione amministrativa, sarebbe stata viziata da una indebita sovrapposizione fra proprietà collettiva e direzione del giornale: la direzione di Norma Rangeri avrebbe “avocato” a sé tutti i poteri, compresi quelli di rappresentanza e garanzia della proprietà collettiva e di formazione della nuova cooperativa.
Chi invece è entrato a far parte della nuova cooperativa ha replicato rovesciando le critiche una dopo l’altra, sostenendo innanzitutto che si è verificato uno scontro tra chi voleva un «giornale di partito» e chi vuole invece un giornale «di battaglia politica» e che se alcuni «fondatori (…) pensano che il manifesto sia finito per sempre. Alcuni compagni della generazione successiva condividono. La redazione nella sua grande maggioranza non lo pensa». La nuova cooperativa sarebbe dunque nata grazie al lavoro di quanti hanno scelto, nonostante le condizioni e non certo per la «pura volontà di conservare un lavoro (cosa nobile in sé, ma non garantita e in questo caso neanche un po’)», di rimanere non abbandonando il giornale in un momento difficile, pensando innanzitutto che questo andasse salvato e mettendo da parte i dissensi. Sui criteri di formazione della nuova cooperativa: sarebbe la legge a prescrivere che la cooperativa debba essere composta in maggioranza da soci dipendenti, ma l’intenzione di «includere quelli che la legge esclude» non sarebbe mai venuta a mancare. Infine, le pagine pubblicate nell’ultimo anno sono state solamente più povere e a causa della mancanza di liquidità per poter pagare il quotidiano (i collaboratori, i viaggi).
E poi
Le ipotesi future rispetto alla nuova proprietà del Manifesto sono principalmente tre. Che il giornale diventi, con un’operazione simile a quella del 1995, una proprietà diffusa, che nel tempo la testata venga comprata dalla nuova cooperativa o da un compratore esterno che al momento però non si è manifestato. In quest’ultimo caso la nuova cooperativa garantirà comunque al giornale, come è sempre stato fino a oggi, la totale autonomia: qualunque sia il futuro acquirente, infatti, dovrà sempre rapportarsi al collettivo.
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