Il momento di Monti: «Le promesse vuote catastrofe per il Paese»

by Sergio Segio | 24 Gennaio 2013 8:04

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DAVOS — L’Italia che Mario Monti ha presentato a Davos è divisa in due. No, niente geografia, per una volta non c’entra il dualismo Nord-Sud. Lo spartiacque è il tempo. C’è l’Italia degli ultimi dieci anni (destra o sinistra al governo non importa), quella che è arrivata a un passo dalla catastrofe, dalla «dissoluzione finanziaria». L’Italia delle «promesse irrealizzabili», l’Italia «che ha fallito l’appuntamento con le opportunità  offerte dalla globalizzazione», l’Italia degli «interessi corporativi che preferivano pagare più tasse piuttosto che aprire davvero il mercato». Un Paese inaffidabile persino per l’emiro del Qatar, «dico emiro del Qatar, non il re della Norvegia», che a domanda secca di Monti, «Perché non investe in Italia?» rispose «con una sola parola: corruzione». In verità  il premier ha già  raccontato diverse volte questa piccola parabola. Ma non importa. La platea di Davos non l’aveva mai sentita e concede una risata e un applauso al presidente del Consiglio italiano. O meglio, per metà  presidente e per metà  candidato in piena campagna elettorale, perché la seconda parte della Storia d’Italia raccontata da Monti comincia proprio nel novembre 2011, quando il Professore della Bocconi formò il suo governo.
Da quel momento in poi, spiega il premier dalla tribuna, l’Italia ha riguadagnato il rispetto internazionale. «Merito dei cittadini italiani, a cui voglio rendere omaggio, merito della loro maturità , della loro capacità  di sostenere i sacrifici necessari per la nostra risalita». Ma, e il premier su questo non si risparmia, merito soprattutto del governo, delle riforme «fondamentali» sulle pensioni, mercato del lavoro, concorrenza e via elencando. Forse si può sfumare qui sul discorso ufficiale e cercare, invece, di ricavare, se possibile, alcune indicazioni da questo «passaggio a Davos». L’anno scorso il presidente del Consiglio non aveva partecipato al World Economic Forum, sebbene invitato. Nei corridoi si disse che Monti aveva rifiutato perché il fondatore e presidente esecutivo del forum, Klaus Schwab, non gli aveva riservato lo stesso spazio e la stessa visibilità  accordati a David Cameron e Angela Merkel. Quest’anno, invece, il capo del governo italiano ha fatto il pieno. Nel primo pomeriggio ha incontrato un centinaio di imprenditori del «Business interaction group», una sorta di internazionale dell’industria e della finanza. Un segnale di riguardo per l’ospite, notano gli esegeti dei riti di Davos. Poi Schwab gli ha offerto la sessione in plenaria, la principale. Lo ha presentato come un modello per i governi europei e gli ha fornito un paio di «assist» (impossibile definirle «domande») per fare emergere anche il lato umano del leader. Monti, per parte sua, prima e dopo l’intervento ha lavorato nelle retrovie, vedendo, tra gli altri, il presidente del Parlamento europeo, il socialista Martin Schulz e anche l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger. In un certo senso il premier Mario Monti deve consentire anche agli ambienti che gli sono più familiari (e Davos è uno di questi) di prendergli le misure nella sua nuova veste di guida politica. Anche in Europa (non solo in Italia) quando si passa dal livello tecnico alla competizione elettorale («si sale in politica») occorre un cambio di passo, di linguaggio. Ieri Monti si è presentato come il leader delle riforme di lungo periodo, capaci di incidere in profondità . Si è presentato come l’esatto contrario dello «short-term», della visione di breve periodo che, secondo Monti, ha contrassegnato la gestione della crisi europea (ed è sembrato di capire che il premier ci metta dentro anche Merkel, per altro mai citata).
Dopodiché al premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz il discorso di Monti è piaciuto, al direttore del Fondo monetario Christine Lagarde anche (sul radar degli osservatori non sono rimaste tracce consistenti del loro breve incontro). Certo, è evidente: né Stiglitz né Lagarde votano in Italia. Ma l’obiettivo di Monti è trasferire la reputazione internazionale dal Professore, dal Commissario europeo, dal premier tecnico che fu al candidato che ha scelto di essere. Se l’operazione funziona potrebbe diventare una carta spendibile nella campagna di febbraio.
Giuseppe Sarcina

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