Il «minimo» che manca nell’Agenda
La differenza tra il salario minimo, invocato ieri da Jean-Claude Juncker, e il reddito minimo, richiesto dai movimenti sociali e oggetto dalla legge popolare promossa tra gli altri dal Basic Income Network Italia (Bin) e da Sel, è che il primo si rivolge ai lavoratori dipendenti contrattualizzati, il secondo è una misura universale rivolta ai cittadini. Il salario minimo è la paga oraria più bassa, giornaliera o mensile, che i datori di lavoro corrispondono agli impiegati o agli operai. Dopo l’abolizione della scala mobile, di solito questa misura viene prevista nelle contrattazioni aziendali.
La differenza tra «salario minimo» e «reddito minimo» passa quasi sempre inosservata nel dibattito che rapsodicamente nasce in Italia. Una distrazione? Può darsi. Ma nulla accade per caso: la cultura del diritto del lavoro, come degli stessi sindacati (anche se Fiom e Flc-Cgil hanno fatto passi in avanti significativi), considera il lavoro salariato, e quello dipendente a tempo indeterminato, come le uniche forme della cittadinanza da tutelare. Il «minimum income» è una forma parziale, ma prevalente, di «basic income», cioè di reddito di base universale e incondizionato che, nella versione elaborata dal filosofo ed economista Philippe Van Parjis, prevede un’estensione illimitata, è rivolto a tutti i soggetti operosi, occupati e non occupati, indipendentemente dal contratto di lavoro posseduto, e non è sottoposta al means test, la procedura con la quale quasi tutti gli stati europei (ventiquattro, tranne Italia, Grecia e Ungheria) che erogano il reddito minimo controllano la vita dei benificiari, obbligandoli a verifiche periodiche.
Il recente volume del Bin, Reddito minimo garantito.Un progetto necessario e possibile (Edizioni Gruppo Abele, sarà presentato martedì 15 a Roma tra gli altri da Stefano Rodotà , Luigi Ferrajoli, Massimiliano Smeriglio e Nicola Zingaretti) passa in rassegna i tre modelli di reddito minimo in Europa. Il più diffuso è il sostegno illimitato garantito nella maggioranza dei paesi, Austria e Germania, Danimarca e Regno Unito, Svezia e Olanda, persino Malta. In Francia, in Portogallo o in Polonia il reddito minino viene erogato come sostegno limitato estendibile. L’importo varia molto: dai 1325 euro erogati in Danimarca nel 2010, 617 dell’Olanda, 460 in Francia, 359 in Germania, anche se in questi ultimi casi viene sempre garantito un sostegno all’affitto o al mutuo della prima casa.
In Italia, il reddito minimo viene considerato come una misura alternativa al sussidio di disoccupazione, oppure come un sinonimo di contributo per alleviare l’indigenza. A questo proposito, sono due i casi di scuola, entrambi forniti da esponenti del governo tecnico. Il primo è quello della riforma Fornero con l’Aspi e la mini-Aspi, cioè due forme di sussidi di disoccupazione percepibili solo a condizione che il lavoratore disoccupato dimostri di avere percepito un giorno di contributi nei due anni precedenti al contratto scaduto. Seppure modificate rispetto al passato, queste norme escludono la maggior parte dei precari, per non dire dei lavoratori autonomi, che insieme rappresentano un terzo della forza-lavoro attiva in Italia. L’altro esempio è il modello proposto da Monti nella sua «agenda»: il «reddito di sopravvivenza» che scambia il reddito minimo con un reddito di povertà , tipico della visione elitaria e paternalistica del liberalismo del presidente del Consiglio. Il reddito minimo non è in nessun caso alternativo al sussidio di disoccupazione. In Europa, interviene dopo la cessazione dell’indennità anche nel caso dei lavoratori dipendenti. Viene erogato ai giovani (19-25 anni) e ai lavoratori maturi (24-45 anni), i più colpiti dalla crisi. A cosa è dovuta la distanza siderale tra i convincimenti più radicati dei «ceti dirigenti» italiani e il resto d’Europa? All’idea che il welfare abbia una natura previdenziale, deve essere cioè pagato con i contributi dei lavoratori, e non una assistenziale e premiale, finanziato attraverso la fiscalità generale con al centro il singolo. È un fatto: il reddito resta fuori dalle agende politiche del paese più precario d’Europa.
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