IL FISCO NELL’URNA
Viviamo il tempo di ferro della crisi globale e del «rigore necessario». L’economia non produce più ricchezza. C’è molta spesa da tagliare, e poco reddito da redistribuire. La pecora di Olof Palme è ormai tosata fino all’osso per molti, mentre resta intonsa per il famoso 1 per cento evocato dalle proteste di «Occupy Wall Strett». È naturale che gli schieramenti in lotta si combattano sul campo minato del fisco, dell’equità e della progressività del prelievo, delle ricette contro l’evasione. Gli italiani sono provati, e chiedono chiarezza ai partiti: il salasso sugli immobili ha prosciugato i bilanci delle famiglie e azzerato le tredicesime dei lavoratori.
Ma il sonno della ragione genera i soliti mostri. C’è una miscela di isterie propagandistiche e di fumisterie ideologiche, che sta trasformando il voto politico in un dissennato referendum sull’Imu. Non stupisce che ad aprire il fronte sia stato Berlusconi, capace di ripetere all’infinito lo schema collaudato. Nel 2001 vinse promettendo «meno tasse per tutti», nel 2008 rivinse promettendo «l’eliminazione dell’Ici», oggi prova a rivincere promettendo «l’abolizione dell’Imu al primo Consiglio dei ministri». Il genere è sempre lo stesso: marketing politico (irresponsabile perché irrealizzabile) e imbroglio economico (con i suoi ultimi due governi la pressione fiscale è aumentata di 4 punti).
Meno ovvio è che persino la celebrata «sobrietà » di Monti svanisca, di fronte alla conclamata falsità del Cavaliere. È difficile spiegare ai contribuenti per quale ragione, dopo aver varato e difeso per un anno un’imposta sugli immobili che colpisce la prima casa con scarso rispetto per i principi di progressività dell’imposta (come ora certifica anche la Commissione Europea), diventi ora possibile «modificarla in più punti». È ancora più difficile far capire agli elettori per quale motivo, dopo aver negato per mesi che vi fosse una palese asimmetria nella triade «rigore-crescita-equità », diventi ora prioritaria la lotta allo «spread sociale». Il passaggio da tecnico a politico, per il Professore, è stato esiziale. Un po’ più di coscienza, prima, sarebbe stata doverosa. E un po’ più di coerenza, adesso, sarebbe opportuna.
Ancora meno ovvio, in prossimità di un voto che potrebbe riportare i progressisti al governo del Paese, è che la sinistra riscopra i suoi vizi più antichi, i suoi anacronismi più triti, i suoi ideologismi più logori. Nichi Vendola è troppo intelligente per non capire che l’anatema contro i «ricchi» da mandare al diavolo, prima ancora che un drammatico autolesionismo, è un tragico errore. Figlio di una cultura che un tempo avremmo definito, con il dovuto rispetto, «catto-comunista». La cosiddetta «borghesia produttiva» ha gravi responsabilità , anche in questa crisi: l’Italia resta il Paese dei capitali in fuga (scudati da Tremonti e tassati da Monti con un obolo poco più che simbolico) e degli imprenditori che denunciano al Fisco 18.170 euro l’anno (contro i 19.819 dei lavoratori dipendenti).
Ma la difesa di chi ha poco o niente non diventa più efficace solo perché si minaccia il fuoco della Geena a chi ha molto o tutto. Senza distinguere tra chi ha accumulato patrimoni nella legalità , e chi li ha ottenuti e occultati con la frode. Le maledizioni bibliche o le riedizioni della cara vecchia «lotta di classe», oltre a «épater les bourgeois», inchiodano l’intera sinistra a una visione eternamente manichea del mondo, e a una dimensione irriducibilmente minoritaria della rappresentanza.
Non dovrebbe esserci neanche bisogno di ricordare il precedente funesto dello slogan di Rifondazione del 2007 (quell’«anche i ricchi piangano» che fece scoppiare un putiferio) per far capire al leader di Sel che questo armamentario ideologico non serve a raggiungere lo scopo. E fa male soprattutto a chi lo usa, perché offre un formidabile strumento di offesa all’avversario. Sortite come quelle di Vendola consentono a Berlusconi di agitare il solito drappo rosso di fronte agli elettori spaventati. A urlare che i soliti comunisti «vogliono colpire le famiglie benestanti». A denunciare che i soliti pauperisti della sinistra alimentano «l’odio e l’invidia sociale». Propaganda bugiarda: nessuno può ragionevolmente invidiare uno stile di vita come quello del Cavaliere e del suo «milieu». Ma Berlusconi, di questa propaganda, si nutre e si rafforza.
Indignarsi per l’ingiustizia sociale che ormai dilaga anche in Italia è giusto e doveroso. Lo ha detto persino Napolitano nei suoi auguri di Capodanno a reti unificate. Ma gridare «i super-ricchi vadano all’inferno» è un’invettiva gratuita, inutile e dannosa. Senza cedere di un millimetro alla radicalità dei suoi valori di uguaglianza, di solidarismo e di diritti, una vera sinistra di governo deve saper finalmente includere, e non più escludere. Meno che mai in base al censo o alle categorie di appartenenza. Le ingiustizie distributive non vanno sanate con la criminalizzazione dei ceti più abbienti, ma con la razionalizzazione dei carichi tributari e la lotta senza quartiere all’evasione fiscale. A questo servono le tasse, come sa chiunque abbia letto la Costituzione, o una «predica inutile» di Einaudi.
Qui non è in gioco una «tattica del fischio» verso i moderati, né una malcelata «intelligenza con il nemico» centrista. È in gioco il governo del Paese. Vendola deve dire qual è il suo disegno. Non può fare con Bersani quello che Lafontaine fece con Schroeder, dimettendosi dopo un anno da ministro delle Finanze e accusando il premier di essere un «cancelliere di cachemire». L’Italia non è la Germania. Dopo ben due sgambetti di Bertinotti ai governi di Prodi, questa volta non sono ammesse ambiguità politiche o riserve mentali. Con il fisco nell’urna, servono soluzioni pratiche, non discriminazioni ideologiche. Bersani ha risposto nel migliore dei modi alla «narrazione» incendiaria di Vendola: «I super ricchi stiano qui, e paghino quel che c’è da pagare». Non si dovrebbe aggiungere altro, in una sana democrazia occidentale.
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